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A quasi un mese dalla morte di Mahsa Amini le proteste in Iran non si sono placate. Mentre le manifestazioni coinvolgono settori sempre più ampi della popolazione, la repressione colpisce e ha già provocato molti morti.
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Dopo aver azzerato lo spazio per posizioni politiche critiche, il sistema è impossibilitato a trovare una soluzione condivisa con chi è accusato di mettere in discussione le fondamenta stesse dello stato rivoluzionario.
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Ai vertici iraniani non resta che la repressione. Fino a quando questo circolo vizioso potrà andare avanti senza che il meccanismo si rompa definitivamente? Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari, in edicola e in digitale dal 14 ottobre.
A quasi un mese dalla morte di Mahsa Amini le proteste in Iran non si sono placate. Mentre le manifestazioni coinvolgono settori sempre più ampi della popolazione, la repressione colpisce e ha già provocato molti morti.
Non sappiamo, naturalmente, dove porteranno queste manifestazioni. È tuttavia importante inquadrare ciò che sta avvenendo all’interno del (lento?) processo di decomposizione della legittimità di un regime rivoluzionario che fa ricorso sempre più sistematico agli strumenti repressivi.
Quindici anni di proteste
Guardando anche solo agli ultimi quindici anni della storia iraniana, ci si accorge che in numerose circostanze i cittadini si sono riversati nelle piazze per esprimere la propria insoddisfazione. Il momento più eclatante è quello del 2009, quando, dopo un voto contestato, la presidenza della Repubblica fu affidata per un secondo mandato a Mahmoud Ahmadinejad.
Guidati da Mehdi Karroubi e Mir Hussein Moussavi, centinaia di migliaia di iraniani hanno contestato la regolarità del voto attraverso manifestazioni di piazza, represse nel sangue dalle forze di sicurezza con l’avallo della Guida Suprema, la quale ha confermato la validità delle consultazioni. Risultato: Ahmadinejad ha governato per altri quattro anni ma al costo di 300 morti e più di 4mila arresti.
Le presidenze pragmatico moderate di Hassan Rouhani (2013-2021) hanno poi generato molte aspettative di apertura del sistema, che sarebbe dovuta passare anche dalla firma dell’accordo sul nucleare con il gruppo dei paesi P5+1. L’accordo è stato raggiunto ma non ha portato i benefici sperati dagli iraniani, peraltro per colpe imputabili più a Washington che a Teheran.
L’economia iraniana ha continuato a soffrire, solo alcune sanzioni sono state rimosse, per poi essere comunque reintrodotte da Donald Trump dopo il ritiro statunitense dall’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) e l’inizio della maximum pressure. In questo contesto, già nel 2017 si erano sviluppate proteste in oltre cento città iraniane. Innescate dal malcontento verso le politiche economiche del governo, le proteste del 2017-2018 hanno finito per investire anche la politica estera della Repubblica islamica, accusata di occuparsi più dei problemi della Siria (riferimento al sostegno a Bashar Assad) che di quelli dell’Iran. Almeno 22 persone sono rimaste uccise durante queste manifestazioni, mentre furono circa 3.700 gli arresti.
Nel 2019 ci sono state nuove proteste, questa volta contro l’aumento dei prezzi dei carburanti deciso dal governo. La repressione ha portato all’arresto di 7mila cittadini iraniani e alla morte di almeno 304.
Oltre a manifestazioni di carattere generale, ve ne sono state altre che si sono sviluppate attorno a temi specifici e di carattere regionale, come avvenuto nell’estate del 2021 nella provincia ricca di petrolio del Khuzestan, al confine con l’Iraq, dove la protesta è stata innescata dalla gestione di una grave crisi idrica. Se da un lato le autorità hanno cercato di fornire le risorse necessarie per affrontare la drammatica situazione, dall’altro anche questa volta le forze dell’ordine hanno represso le manifestazioni nel sangue.
Opinione pubblica
Le proteste di oggi da un lato si scagliano contro l’obbligo di indossare il velo, e dall’altro solidarizzano con la ventiduenne curdo iraniana Mahsa Amini e con le altre vittime della repressione, che è resa più insopportabile dal doppio standard con cui è applicata (o meno). Basta fare un giro su Twitter e Instagram per constatare come alle figlie o nipoti di maggiorenti del regime siano permessi comportamenti ben più ambigui di quelli che hanno portato alla morte di Mahsa.
Del resto, lo iato tra le élite al potere e la popolazione comune è enorme, come evidenziato da un sondaggio del 2020 che ha coinvolto più di 50mila iraniani, dei quali oltre il 90 per cento residenti nel paese: i risultati mostrano che, proprio nella Repubblica islamica, il 78 per cento delle persone crede in Dio, ma soltanto il 27 per cento compie le cinque preghiere giornaliere canoniche dell’Islam, nonostante più del 60 per cento degli intervistati affermi di essere cresciuto in una famiglia di credenti e praticanti.
Tutto ciò si traduce nel fatto che il 68 per cento degli intervistati ritiene che le prescrizioni islamiche dovrebbero essere escluse dalla legislazione. Posizioni che forse spiegano la scelta del regime di investire pesantemente, sia in termini politici che economici, su un aspetto simbolico come l’imposizione del velo: secondo l’avvocato per i diritti umani Nemat Ahmadi, l’Iran spende 193 milioni di dollari all’anno per attività promozionali legate all’hijab.
Il sistema politico
Per comprendere la crisi di legittimità in cui versa il sistema è utile guardare all’andamento delle elezioni: pur non trattandosi di un sistema libero, esse ci forniscono alcune indicazioni sulle scelte del regime e sulle sfide cui questo fa fronte.
Il sistema iraniano prevede che tutti i candidati alle cariche pubbliche passino preventivamente al vaglio del Consiglio dei guardiani, organo formato da dodici giuristi, di cui sei nominati direttamente dalla Guida suprema. In occasione delle elezioni presidenziali del 2021, su oltre 500 candidati soltanto sette sono stati ammessi alle elezioni e tra questi non vi era alcuna figura di spicco in grado di competere veramente con Raisi.
Gli elettori iraniani hanno agito di conseguenza disertando le urne, facendo segnare l’affluenza più bassa della storia della Repubblica islamica (48 per cento). Non che nel 2017 fosse andata meglio, con più di 1.600 candidati e solo sei ammessi, ma almeno all’epoca tra di essi figuravano il presidente uscente Rouhani, lo stesso Raisi e l’ex sindaco di Teheran Mohammed Bagher Qalibaf.
In generale, la tendenza evidenziata anche in corrispondenza di altri appuntamenti elettorali, come quelli relativi all’Assemblea degli esperti e del majlis, è la restrizione progressiva dei requisiti per poter essere ammessi alle elezioni. Un record negativo si è avuto durante le elezioni per l’Assemblea degli esperti del 2016, quando è stato ammesso solo il 20,1 per cento dei candidati. Qual è il significato di questa tendenza?
Nonostante la natura teocratica del regime, in Iran la presenza contemporanea di organi a legittimazione popolare e organi a legittimazione religiosa (che limitano i primi) ha permesso la creazione di uno spazio politico all’interno del quale, fissati i paletti del “credo rivoluzionario”, hanno potuto trovare posto orientamenti e posizioni politiche diverse, come reso evidente per esempio dalla scelta del duo Zarif-Rouhani di guardare all’occidente da una prospettiva diversa da quella di Ahmadinejad. Il divieto di candidarsi imposto a molte persone, inclusi numerosi ex parlamentari o ministri, va letto nella stessa ottica dell’applicazione più rigida della legislazione sul velo: lo spazio politico per il dissenso, già esiguo, si restringe fino quasi a scomparire.
Circolo vizioso
Mentre molti giovani manifestano contro il regime, Khamenei replica il solito registro: sono americani e israeliani a organizzare le proteste, che sarebbero perciò tutt’altro che spontanee. Su una cosa Khamenei ha però ragione: le proteste non riguardano il velo ma la natura stessa della Repubblica islamica. Il rahbar l’ha esplicitato in un tweet: molte donne iraniane non indossano «perfettamente l’hijab [ma] sono tra i più risoluti sostenitori della Repubblica islamica».
Dopo aver azzerato lo spazio per posizioni politiche critiche, il sistema è impossibilitato a trovare una soluzione condivisa con chi è accusato di mettere in discussione le fondamenta stesse dello stato rivoluzionario. Ai vertici iraniani non resta che la repressione. Così, il fluire della vita politica è puntellato da manifestazioni represse nel sangue, ciò che contribuisce a indebolire ulteriormente la legittimità delle autorità, che di conseguenza fanno ancora più affidamento sulla repressione. Fino a quando questo circolo vizioso potrà andare avanti senza che il meccanismo si rompa definitivamente?
È un quesito che si aggiunge a quello sul futuro di un paese appeso alla sorte di una Guida suprema anziana e malata e in attesa di capire che piega prenderanno gli infiniti negoziati sul nucleare.
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