La Knesset approva una proposta di legge contro l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi. Inutili le pressioni di Gran Bretagna e Usa per evitare lo strappo
Ennesimo attacco alle Nazioni unite. La Knesset ha approvato una proposta di legge che mette al bando l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa). Il testo, secondo il Guardian, è passato con 92 voti favorevoli e dieci contrari. Mai nessuno si era spinto fino a questo punto.
La legge proibisce i contatti tra le entità statali israeliane e l’Unrwa, toglierebbe all’organizzazione la sua sede centrale a Gerusalemme Est e non permetterebbe il rilascio dei permessi di lavoro al personale e ai diplomatici Onu. «È scandaloso che un Paese membro delle Nazioni Unite cerchi di smantellare un'agenzia dell'Onu che è il più importante fornitore di operazioni umanitarie a Gaza», ha dichiarato all’Afp la portavoce dell’Unrwa Juliette Touma.
«Se adottate, queste leggi avranno conseguenze di vasta portata, rendendo di fatto impossibili le operazioni vitali dell’Unrwa a Gaza, ostacolando seriamente la fornitura di servizi sanitari, educativi e sociali dell’Unrwa nella Cisgiordania occupata e revocando i privilegi e le immunità diplomatiche dell’Unrwa in Israele», aveva ammonito l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell prima del voto.
A nulla sono servite le pressioni di Stati Uniti e Regno Unito che hanno provato a fare pressioni per bloccare la proposta. Dopo gli attacchi deliberati alle postazioni dei caschi blu della missione Unifil, la designazione del segretario generale, Antonio Guterres, come persona non grata, ora Israele mette al bando l’Unrwa.
Nei mesi scorsi alcuni stati occidentali avevano tagliato parte dei fondi dopo le pesanti accuse del governo israeliano secondo cui l’Unrwa era infiltrata da affiliati di Hamas coinvolti nell’attacco del 7 ottobre 2023. Dopo un’inchiesta interna, nove dipendenti sono stati licenziati e i fondi sono stati reintegrati.
Trattative
Dopo mesi di silenzio c’è una prima apertura per le trattative. La proposta dell’Egitto presentata dal presidente Abdel Fattah al Sisi piace sia ad Hamas che al governo israeliano. Tuttavia, il gradimento della proposta non è sinonimo di stretta di mano. Il Cairo propone una tregua di due giorni in cambio del rilascio di quattro ostaggi israeliani e la liberazione di un numero imprecisato di detenuti palestinesi (solo ieri ne sono stati arrestati 100 a Gaza e 11 in Cisgiordania). Due giorni estendibili ad altri dieci per continuare a trattare e non fermarsi al primo scambio.
Hamas, però, vorrebbe una tregua permanente e il ritiro completo delle truppe israeliane, al momento obiettivi lontani, lontanissimi. A pesare saranno anche le elezioni americane del 5 novembre. «Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco. Dobbiamo fermare questa guerra. Deve finire, deve finire, deve finire», ha detto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden dopo aver votato in anticipo per le elezioni presidenziali americane nel Delaware.
Le prossime ore saranno decisive e anche se il capo del Mossad David Barnea è rientrato in serata da Doha si continua a trattare tra le parti. Tanti i nodi da sciogliere, tra questi il destino del nord della Striscia di Gaza dove in oltre 24 giorni l’esercito israeliano ha ucciso più di mille persone.
Ieri i soldati dello stato ebraico sono entrati nell’ospedale Kamal Adwan, dove hanno arrestato un centinaio di persone considerate affiliate ad Hamas. La popolazione rimasta nel nord della Striscia è allo stremo e Israele sta deliberatamente impedendo l’accesso agli aiuti umanitari. «Le nostre richieste sono chiare e note e si può raggiungere un accordo, a patto che Netanyahu resti fedele a quanto concordato», ha detto Husam Badran membro della leadership di Hamas con base a Doha. Da parte sua il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele sta tentando un accordo anticipato per liberare alcuni ostaggi in cambio di diversi giorni di cessate il fuoco.
Parlando alla Knesset, Netanyahu ha affermato di voler stringere accordi di «pace con altri paesi arabi», sulla scia di quelli di Abramo. «Questi paesi, e altri paesi, vedono chiaramente i colpi che stiamo infliggendo a coloro che ci attaccano, l’asse del male iraniano», ha aggiunto. «Aspirano, come noi, a un Medio Oriente stabile, sicuro e fiorente». Se Netanyahu o i suoi ministri avessero ricevuto “input” in questa direzione da parte dei capi di stato o di governo del mondo arabo, il silenzio di quest’ultimi assume una spiegazione esplicita: la distensione definitiva dei rapporti.
Il fronte iraniano
«Il nemico è indebolito, sia nella sua capacità di produrre missili che nella sua capacità di difendersi. Questo cambia gli equilibri di potere». A sentenziare è il ministro israeliano della Difesa, Yoav Gallant. È difficile valutare l’impatto dell’attacco avvenuto nel fine settimana in Iran. Il comandante delle Guardie rivoluzionarie, Hossein Salami, ha detto che Israele affronterà «amare conseguenze» dopo l’attacco subito. Anche se «non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi».
Secondo i media iraniani nessuno degli impianti dell’industria petrolifera iraniana è stato danneggiato negli attacchi, ma ai quattro soldati uccisi ieri si è aggiunta anche la morte di un civile. Il portavoce del ministro degli Esteri, Ismail Baghai, ha detto che l’Iran «non ha intenzione di rivedere la sua dottrina nucleare alla luce del recente attacco israeliano sul suo territorio, conferendole un carattere militare». E ha aggiunto che l’Iran «non rinuncerà al suo diritto di rispondere al regime israeliano. Siamo determinati e seri nel rispondere al momento opportuno».
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