Il nuovo numero di Scenari, la pubblicazione geopolitica di Domani, è questa settimana dedicato a Israele, a pochi giorni dalle elezioni parlamentari che si terranno il 1° novembre. In venti pagine, gli approfondimenti inediti firmati da Nicolò Rascaglia e Sabrina Sergi, Davide Lerner, Francesco Filippi e tanti altri – e le mappe a cura di Daniele Dapiaggi e Giulia De Amicis di Fase2studio Appears – analizzano l’instabilità politica e il ruolo negli equilibri globali di un paese che torna alle urne per la quinta volta in meno di quattro anni. 

Cosa c’è nel nuovo numero

Luca Sebastiani parte dalle imminenti elezioni del 1° novembre. Benjamin Netanyahu, ex primo ministro e guida del partito di centrodestra Likud, vuole riprendersi il potere. Il suo partito sarà probabilmente il più rappresentato nella Knesset, ma su di lui pesano i lunghi anni di gestione controversa del potere, culminati con un processo per corruzione, frode e abuso d’ufficio tuttora in corso. Il suo principale sfidante è Yair Lapid, attuale primo ministro e leader del partito Yesh Atid. 

Nicolò Rascaglia e Sabrina Sergi spiegano come le prossime elezioni israeliane rischiano di compromettere le relazioni con la Turchia in caso di vittoria di Netanyahu. Lo scorso agosto, infatti, Turchia e Israele hanno ufficialmente messo fine ad anni di tensioni diplomatiche con la nomina di rispettivi ambasciatori, ma l’ex primo ministro israeliano ha già espresso il suo disprezzo per il processo di riavvicinamento ad Ankara. Il rapprochement è stato proposto e sostenuto dallo stesso Recep Tayyip Erdogan, con lo scopo di rompere l’isolamento decennale del suo paese e far rientrare Ankara nella partita energetica del Mediterraneo orientale, da cui era stata esclusa a causa di tensioni con alcuni stati rivieraschi.

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Rimanendo sul tema questione energetica, Eleonora Poli ci dà aggiornamenti sul versante europeo, evidenziando come la resistenza tedesca al price cap europeo stia ritardando la risposta alla crisi ma abbia anche avviato il dibattito sulla natura del piano: i paesi del nord non approvano l’idea di un fondo comune per far fronte al rincaro dei prezzi, perché questo potrebbe, secondo il loro punto di vista, aprire le porte a una mutualizzazione dei debiti nazionali, come quello italiano. Intanto, però, gli accordi di Orbán con Gazprom aprono una pericolosa scorciatoia per altri paesi membri se l’Ue non dovesse dimostrarsi all’altezza in tempi brevi.

Tornando a Israele, Lorenzo Zacchi si concentra sul dossier nucleare iraniano, il cuore delle paure del piccolo paese mediorientale da quando, a inizio anni Duemila, l’organizzazione dissidente iraniana Mojahedin-e Khalq ha rivelato al mondo l’esistenza dei due impianti nucleari di Arak e Natanz. In seguito, l’accordo firmato nel 2015 da Iran, Ue, e dai cinque stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu più la Germania – che prevedeva il contenimento dei piani nucleari di Teheran in cambio della riduzione di alcune sanzioni – è entrato in crisi con l’èra Trump, proprio su pressione israeliana. Ma le persistenti difficoltà nel tutelare i propri interessi nell’area e nel giungere a un nuovo accordo multilaterale che soddisfi a pieno anche Israele agitano ancora il paese.

Nella diplomazia a geometria variabile in cui si inseriscono anche gli Stati Uniti, Michelangelo Cocco sposta lo sguardo verso la cooperazione tecnologica sempre più stretta tra Israele e la Repubblica popolare cinese, che ha suscitato negli ultimi anni la crescente irritazione americana. La linea degli Usa – dai quali Israele è a lungo dipeso per la sua stessa sopravvivenza – è ineccepibile: Washington, che persegue un decoupling tecnologico da quello che ha individuato come il suo avversario strategico più temibile, non può tollerare che il suo principale alleato in medio oriente fornisca alla Cina tecnologia avanzata, che può essere a doppio uso, civile e militare. È questo il motivo per cui Biden ha formalmente avviato nel luglio scorso un nuovo dialogo strategico con l’alleato, fermando così il sodalizio intrapreso da Pechino e Tel Aviv. 

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Per ampliare lo sguardo sugli ultimi eventi politici occorsi in Cina, Benedict Rogers si sofferma sul XX congresso nazionale del Partito comunista cinese terminato il 22 ottobre. Questo raduno, della durata di una settimana, si svolge ogni cinque anni e stabilisce la direzione per i successivi cinque, che non sarà buona: Xi Jinping è stato in questa occasione riconfermato per un terzo inusuale mandato segretario generale del Pcc e presidente della Commissione militare centrale, e ha aumentato a dismisura il suo potere decisionale. Secondo Rogers, è ora che i governi di tutto il mondo agiscano per contrastare le violazioni dei diritti umani compiute da Pechino, da quelle commesse verso la minoranza uigura nella regione dello Xinjiang a Hong Kong.

Davide Lerner racconta poi l’Israele contemporaneo attraverso Stupore, il nuovo romanzo di Zeruya Shalev, appena pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Elena Loewenthal. Il libro indaga i temi dei disturbi da stress post traumatico, dei rapporti fra genitori e figli nelle famiglie allargate e dei meccanismi della memoria. Così la scrittrice israeliana riesce a fare da terapista al suo paese tramite la letteratura, in quanto, sostiene la stessa Shalev, i suoi racconti «possono sembrare assurdi, senza senso e sconclusionati», ma senza dubbio per certe persone «possono essere motivo di conforto».

Ricollegandosi alla memoria e alla guerra, Fulvio Maria Palombino analizza gli effetti indesiderati di una Norimberga ucraina, presentandoci l’idea rilanciata da Zelensky di istituire un tribunale speciale per punire l’aggressione russa. Se le ragioni della proposta sono chiare e legittime, meno chiare sono le conseguenze che il precedente potrebbe produrre in altri contesti di conflitto.

Francesco Filippi si interroga a seguire su una domanda molto attuale, la geopolitica può essere considerata una scienza di destra? La disciplina che studia i rapporti tra gli stati e i popoli non ha di per sé un colore politico, ma le sue caratteristiche costitutive l’hanno resa nel tempo una facile fonte di giustificazione per le forze conservatrici e autoritarie, in Italia e nel mondo. Ancora oggi, la chiamata alle armi per la difesa degli interessi nazionali è una costante del racconto pubblico, basti guardare al modo in cui in Russia si racconta la guerra in Ucraina, derubricata dai media a “operazione speciale” per ricondurre nell’alveo “naturale” del mondo russo un pezzo di vecchio impero. Quello che serve, secondo Filippi, è ripulire la geopolitica dalle incrostazioni ideologiche, andando verso la via della “geoetica”.

Camillo Casola, infine, individua nella regione del Sahel il punto nevralgico in cui si incrociano tutte le crisi del nostro secolo, da quelle legate alle fragilità della governance politica al deterioramento ambientale. L’area compresa tra i territori di Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger è infatti una delle più vulnerabili al mondo. Gli effetti del riscaldamento globale hanno qui alternato negli ultimi sessant’anni fasi di siccità e precipitazioni estreme, ma la conflittualità nella regione, oltre a dipendere dalle variazioni climatiche, deriva anche dall’inefficienza politica. L’articolo condensa i contenuti del suo ultimo libro, Sahel. Conflitti, migrazioni e instabilità a sud del Sahara, da poco pubblicato per il Mulino.

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