Condannato a quattro ergastoli, in prigione da 21 anni, Marwan Barghouti è ancora il personaggio più popolare tra i palestinesi. L’unico leader credibile. Da tempo si parla di una sua scarcerazione perché Israele abbia un interlocutore. Questa è la sua storia.
La clessidra del tempo si è capovolta e siamo precipitati più o meno a 15 anni fa, prima del lungo regno di Netanyahu a conferma di quanto il premier più longevo di Israele si sia concentrato solo sulla perpetuazione dello status quo. Ora si riprende a parlare di “due popoli, due stati”, formula antica e sempre naufragata ma l’unica possibile, cioè una terra per i palestinesi che Bibi aveva sempre escluso «finché sarò al potere». E riparte la caccia a un interlocutore credibile.
Ovviamente escluso Hamas, troppo datato e al minimo del consenso il vecchio Abu Mazen, ecco che si rispolvera il nome di Marwan Barghouti, costantemente primo in tutti i sondaggi di popolarità, da 21 anni in prigione, condannato a cinque ergastoli, enfaticamente definito da qualcuno il “Mandela di Ramallah”.
Con una pena del genere da scontare sarebbe impossibile in qualunque altro luogo una sua liberazione e una sua candidatura a mediatore e a presidente, eppure il suo nome fa capolino sui media israeliani, fiorisce sulla bocca persino di qualche politico proprio come 15 anni fa. Un’ipotesi del genere non è comunque senza precedenti. Era tipico dell’impero britannico formare nelle proprie galere i leader dei paesi che occupava.
Nelle carceri israeliane Marwan Barghouti, 64 anni, ha avuto il tempo di imparare l’ebraico, entrare in contatto con il nemico, capire la sua mentalità mentre nel suo campo è rimasto intatto il carisma, anzi è semmai cresciuto per i fallimenti di chi si è alternato al potere, siano i sanguinari di Hamas, siano i dinosauri di Fatah, il movimento laico che fu di Yasser Arafat.
La carriera politica
Proprio a Fatah ancora ragazzo Barghouti, nato a Kobar, villaggio nei pressi di Ramallah, aderì nel 1974, pagò con un primo arresto la partecipazione a una sommossa nel 1976. Liberato, si iscrisse all’università di Bir Zeit, due lauree, in storia e scienze politiche, un master in relazioni internazionali. E la passione politica che cresce unitamente alle sue capacità di leadership al punto da diventare uno dei capi della prima Intifada, o Intifada delle pietre, nella seconda metà degli anni Ottanta. Riarrestato, espulso in Giordania, rientrato nel 1994 dopo la firma degli Accordi di Oslo, usa la sua riconosciuta capacità oratoria per difendere il processo di pace e viene notato dai vertici, Arafat compreso, che lo inglobano nel Consiglio legislativo e lo spingono alla carica di segretario generale di Fatah per la Cisgiordania.
È proprio la delusione per la mancata implementazione di Oslo che si sposta su posizioni più estreme e quando esplode la seconda Intifada, o Intifada dei kamikaze, lo troviamo al comando delle brigate dei martiri di al-Aqsa, sottogruppo dei Tanzim di Fatah.
Scampato a un tentativo di ucciderlo dell’esercito israeliano, non sfugge a una terza cattura e stavolta le accuse sono di omicidio per gli attentati del suo gruppo. Si dichiara innocente, si rifiuta di difendersi perché non riconosce «la legittimità del tribunale israeliano».
Al processo pubblico del 2004 si presenta sorridente, le mani incatenate alzate verso l’alto e con il segno della vittoria. Al Washington Post consegna il suo autoritratto: «Non sono un terrorista, non sono neppure un pacifista. Sono semplicemente un normale uomo della strada palestinese che difende la causa che ogni oppresso difende, il diritto di difendermi in assenza di aiuti che potrebbero venire da altre parti». La sentenza è scontata, carcere a vita.
La prigionia
Che non fosse un prigioniero come gli altri era chiaro fin da subito. In Israele si accende pressoché subito un dibattito sulla sua liberazione proprio perché ci sia un interlocutore che manca nell’opinione del premier di allora Ariel Sharon. Yossi Beilin, laburista, uno dei mediatori di Oslo, chiede il perdono presidenziale. Shimon Peres si dice disposto a concederlo qualora Marwan fosse stato eletto presidente in elezioni che poi non si sono più tenute e ogni volta che sono state ventilate lo hanno sempre visto al primo posto nel consenso popolare.
Ha però continuato nel tempo la battaglia per la sua liberazione la moglie Fadwa, avvocato. Nel 2008, grazie ai buoni uffici della donna, chi scrive è riuscito ad ottenere una intervista con domande scritte e risposte dalla cella.
Già allora diceva: «Hamas con il controllo militare di Gaza ha commesso un errore strategico, si è messo in trappola e ha trascinato il movimento palestinese in una crisi senza precedenti. Deve lasciare il controllo di Gaza e consegnare il potere ad Abu Mazen, rispettare la Costituzione provvisoria, rinunciare alla violenza per risolvere i problemi interni e rispettare il principio democratico». Credeva nella fine dell’occupazione convinto che convenisse anche agli israeliani perché altrimenti «non avranno mai pace e sicurezza».
Non era stato tenero con Fatah che da vent’anni non organizzava la conferenza generale del movimento. Un distacco che si sarebbe accentuato nel tempo causa l’incapacità del gruppo dirigente di rinnovarsi, aprire alle nuove generazioni e condurre una battaglia più efficace contro l’occupazione.
Popolare a Gaza
Dopo aver trascorso 18 anni nel carcere di Nafha, 12 dei quali in isolamento, lo scorso settembre è stato trasferito nel penitenziario di Ofer. Alla fine dello stesso mese “Arab Barometer”, istituto demoscopico fondato da Amaney Jamal docente a Stanford, in collaborazione con il National endowment for democracy, un’agenzia americana finanziata dal Congresso, ha condotto un sondaggio tra i palestinesi, concluso il giorno prima del fatale 7 ottobre.
Quelli di Gaza hanno risposto nel 32 per cento dei casi che voterebbero come presidente Barghouti, il quale sbaraglierebbe sia il leader di Hamas Ismail Haniyeh (24 per cento), sia Abu Mazen (12 per cento). Se si considerano anche i palestinesi della Cisgiordania il divario con gli ipotetici contendenti si farebbe ancora più largo e in un eventuale ballottaggio con chiunque non ci sarebbe partita, vincerebbe con oltre il 60 per cento.
Quando ai soli gazawi, spulciando tra i grafici si scopre che il 44 per cento non ha nessuna fiducia in Hamas e il 23 per cento molto poca, il 73 per cento vuole un accordo di pace con Israele. A conferma, se ce ne fosse bisogno, che non tutta la Striscia è Hamas.
Terminato il conflitto in atto, Barghouti potrebbe essere l’uomo ponte in grado di mettere d’accordo tutto il suo popolo. Da capire se i capi e capetti di Hamas e Fatah accetterebbero di buon grado il suo ritorno dato che non si sono mai spesi con convinzione per la sua causa. Quanto a Israele dopo la carneficina potrebbe essere arduo far digerire all’opinione pubblica la sua uscita dalle sbarre. Ma, se si vuole un interlocutore, questo è anche il tempo del coraggio.
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