Col senno di poi, non poteva finire che così. Non era ottimismo della ragione, visto che viviamo in un'epoca post-illuminista in cui domina l'irrazionale e la ragione si è persa. Era, più banalmente, un grumo di speranza: malriposta. Perché Israele persegue solo una logica militare che non tiene conto non solo di qualunque risvolto umanitario ma anche di nessun aspetto politico.

Il mondo intero, dagli Stati Uniti all'Europa per arrivare all'Arabia Saudita sinora conciliante persino davanti agli eccessi bellici, sta pregando lo Stato ebraico di fermarsi, di non trasformare il conflitto di Gaza in una guerra regionale. Cosa che è già in atto, è già successa. Il ventilato e assai probabile intervento di terra in Libano ne sarà il sigillo definitivo. Per opportunismo, per non rimanere isolato, qualunque leader avrebbe esitato prima di varcare l'ultimo Rubicone. Non ora, non qui. Tanto più perché proprio sull'intento di distruggere Hezbollah, vasto programma, si è risaldata l'unità di vedute tra il governo e l'esercito.

L'esercito, nell'anno ormai di assiduo martellamento della Striscia con il massacro di oltre quarantamila persone, più volte si è mostrato dissidente nei confronti degli ordini di Benjamin Netanyahu. Solo la gerarchia di comando l'aveva ridotto all'obbedienza benché Hamas, e nonostante la carneficina del 7 ottobre, non rappresentasse una minaccia così ingente da giustificare la distruzione totale di quel disgraziato fazzoletto di terra.

Era ed è l'esagerata vendetta per il colpo subito, lo choc nazionale provocato dalla presa d'atto che i confini non sono sicuri, e questo dopo una quindicina d'anni in cui dominava uno status quo di tranquillità seppur vigilata. I musulmani erano impegnati nelle “primavere arabe” (tutte fallite peraltro), nello scontro inter-religioso tra sunniti e sciti, mentre lo Stato islamico, durato per fortuna solo pochi anni, aveva fatto volgere altrove lo sguardo delle priorità.

Ma Hezbollah è una faccenda ben più seria e complicata. Intanto perché il partito di Dio possiede un arsenale valutato in 150 mila missili ben più potenti di quelli di Hamas, ha una facilità logistica e di rifornimenti più solida non essendoci soluzione di continuità ideologica tra l'origine della produzione, l'Iran, e il luogo di consegna, il confine nord di Israele. Controlla inoltre una fetta importante di un Paese, il Libano, dove svolge un ruolo decisivo nella vita istituzionale attraverso il suo ramo politico.

Dopo la guerra del 2006 non c'è stata mai pace, ma una tregua armata precariamente garantita da una missione delle Nazioni Unite, l'Unifil, nella quale l'Italia è primattore fin dal principio (Massimo D'Alema, da ministro degli Esteri ne fu fautore). Si arrestò il conflitto, comunque un bene, senza tuttavia rimuovere le ragioni profonde che l'avevano prodotto. Una sorta di ipocrisia necessaria permetteva ad Hezbollah di rafforzare il suo potenziale militare purché sparasse sì, ma solo un poco, scaramucce endemiche e risolte con mediazioni faticose e continue.

Per la legge dei vasi comunicanti, Gaza è stata il detonatore di una crisi progressivamente crescente. Hezbollah ha preso a bombardare con regolare continuità fino ad indurre alla fuga decine di migliaia di israeliani prossimi alla frontiera e diventati profughi interni in Israele. Così una volta completata o quasi l'operazione della Striscia, ecco la voglia di regolare i conti, di eliminare il pericolo incombente, di rompere gli indugi dopo avere a lungo tergiversato.

L'incognita è capire quali possono essere gli sviluppi della crisi allargata. Israele e l'Iran (di cui Hezbollah è una diramazione) sinora hanno accuratamente evitato il confronto aperto consci degli effetti nefasti che potrebbe provocare. L'escalation mette in discussione l'equilibrio precario dei rapporti tra le due potenze regionali. Se in guerra si sa come si entra, non si sa mai come si esce. Troppe linee rosse che sembravano invalicabili sono già saltate.

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