Salvare gli ebrei a qualunque costo e dare loro riparo dalle persecuzione è la missione all’origine dello stato ebraico. Sulla base di questo principio i governi hanno negoziato con i nemici scambi di prigionieri sulla carta poco vantaggiosi o addirittura incomprensibili. Il devastante attacco di Hamas porta il dilemma del governo in territori inesplorati
Il 16 luglio 2008 alla frontiera Israele-Libano i corpi di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, due soldati israeliani rimasti uccisi durante la guerra del 2006, venivano riconsegnati alle famiglie in presenza delle cariche istituzionali.
Per convincere i miliziani del gruppo armato sciita Hezbollah a finalizzare lo scambio, tuttavia, lo stato ebraico aveva dovuto accettare il rilascio del prigioniero Samir Kuntar, uno dei militanti più disprezzati dall’opinione pubblica.
A 16 anni Kuntar era arrivato in barca nel nord di Israele e aveva spaccato il cranio di una bambina di 4 anni, Einat Haran, con il calcio del suo fucile, durante un attacco che aveva scioccato profondamente gli israeliani. Come se non bastasse, insieme a Kuntar venivano liberati altri 4 prigionieri e svariati cadaveri di miliziani caduti combattendo Israele.
Ethos israeliano
Il rilascio di Kuntar in cambio di due corpi senza vita fotografa con efficacia l’ethos israeliano di fare tutto il possibile per la liberazione degli ostaggi. Anche se solamente per garantirgli una sepoltura.
Un ethos da tenere presente dopo i rapimenti di massa nel contesto delle carneficine perpetrate dai miliziani di Gaza nelle comunità frontaliere dello stato ebraico il 7 ottobre scorso - sarebbero fra i 130 e i 150 gli israeliani portati nella striscia. E le cui radici affondano nell’idea alla base del movimento sionista, quella di salvare gli ebrei ad ogni costo mettendoli al riparo in uno stato ebraico.
Il caso Shalit
Paradigmatico è il caso di Gilad Shalit, il soldato rapito da militanti di Hamas il 25 giugno del 2006 alla frontiera con Gaza. Dopo 5 anni passati in cattività, nel 2011 veniva liberato alla presenza del premier Benjamin Netanyahu in cambio di 1.027 palestinesi, fra cui l’attuale capo dell’ala militare di Hamas, Yahya Sinwar, che in carcere aveva imparato l’ebraico.
Debilitato ma tutto intero, Shalit avrebbe presto messo a frutto le lunghe giornate passate a guardare partite di basket in un bunker insieme ai miliziani di Gaza, diventando un commentatore sportivo.
Come ogni regola che si rispetti gli esempi sono tanti ma ci sono anche le eccezioni. L’israeliano di origini etiopi Avera Mengistu, ventottenne sconfinato di sua volontà a Gaza nel 2014, probabilmente complici dei problemi di salute mentale, non si è meritato sforzi governativi importanti per riportarlo a casa. Né la società civile si è mai commossa e mobilitata in modo capillare e martellante come per il caso Shalit.
Lo stesso vale per il beduino israeliano Hisham al Sayid, a Gaza dal 2015, anch’egli parte come Mengistu di una minoranza debole della popolazione. Per la sfortunata ricercatrice Elizabeth Tsurkov, sequestrata da una milizia in Iraq.
E per i corpi dei soldati Oron Shaul e Hadar Goldin, rimasti nella striscia dopo l’operazione del 2014, per i quali i genitori hanno fatto anni campagna. Invano.
Il dilemma di Israele
All’indomani dell’attacco di sabato le famiglie degli israeliani rapiti si sono subito organizzate per sensibilizzare politici e quadri militari. Il rischio di ricevere poca considerazione, almeno all’inizio, non va sottovalutato: il governo ha chiarito che non intende moderare la rappresaglia in considerazione della presenza dei prigionieri.
La priorità è scatenare l’inferno per regolare i conti e riacquisire la deterrenza perduta.
Gli israeliani non sembrano aver alterato il corso delle loro azioni neppure alla luce della minaccia di Hamas di giustiziare un israeliano ogni volta che le forze aeree bombardano un obiettivo senza il “colpetto di avvertimento” sul tetto, che aiuta a risparmiare vittime civili (faceva parte delle regole del gioco nelle precedenti operazioni).
Forse Bibi e i suoi contano sul fatto che gli ostaggi rappresentano una merce di scambio troppo preziosa per i miliziani: lo stesso Yahya Sinwar non perde occasione di ribadire l’impegno dei palestinesi verso i compagni di galera, dicendosi pronto a fare tutto il possibile per liberarli. Liquidare subito gli ostaggi manderebbe all’aria una grande occasione.
Un altro rischio per le famiglie può essere riassunto con il detto attribuito a Stalin: «Una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica». Su Shalit era stata costruita una narrazione personale potentissima: grazie fra l’altro alle campagne pubbliche instancabili del padre Noam, la sua storia aveva conquistato mezzo paese.
Tale processo è meno immediato a fronte di una moltitudine così ampia di ostaggi, e di un massacro costato la vita a 1200 persone.
Guardami negli occhi, Bibi
Le prime giornate dopo il cosiddetto 11 settembre israeliano lasciano pensare i timori delle famiglie siano fondati. «In quale mondo fate la guerra sulla schiena dei nostri bambini?», ha chiesto Hadas Calderon, una dei pochi sopravvissuti del kibbutz Nir Oz, accusando il governo di ignorare i familiari portando avanti un’offensiva che non tiene conto degli ostaggi.
Calderon ha la madre, due figlie, una nipote disabile e l’ex marito a Gaza. «Noi non sappiamo nulla, ok? Nessuno ci parla, nessuno si è rivolto a noi. Sono tutti spariti, che succede? Bibi voglio che mi guardi in faccia, che cos’è tutto questo?», ha chiesto in un monologo emozionato.
Alcuni media locali hanno addirittura accusato il governo di mettere in pratica il “protocollo Annibale”. Si tratta di un controverso e segreto codice della dottrina militare israeliana secondo cui sarebbe meglio eliminare un commilitone piuttosto che lasciare venga rapito.
In questo caso vorrebbe dire portare avanti l’attacco senza tenere conto dei prigionieri.
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