La prima fase dell’accordo per il cessate il fuoco fra Israele e Hamas scade oggi senza che le due parti abbiano fatto passi avanti significativi nelle trattative per la fase due.

Le rispettive posizioni sono relativamente chiare. Israele fa sapere di non essere intenzionato a rispettare gli impegni previsti dal secondo capitolo dell’intesa, cioè il ritiro da Gaza e la fine della guerra. In particolare, un ufficiale israeliano ha diffuso un comunicato in cui si esclude il ritiro completo delle truppe dal corridoio di Filadelfia, cioè dal perimetro della frontiera fra Gaza e l’Egitto.

«Non lasceremo Filadelfia, non permetteremo agli assassini di Hamas di vagare nuovamente lungo i nostri confini con i loro pick-up e i loro fucili, e non permetteremo loro di riarmarsi attraverso il contrabbando», ha detto il funzionario israeliano, alludendo ai tunnel attraverso cui, negli anni del blocco totale, transitavano persone, merci di ogni tipo ed armi.

L’offerta di Netanyahu

Dunque l’offerta di Israele è piuttosto quella di prorogare la tregua nei termini delle prime sei settimane, recuperando gli ultimi 59 ostaggi, dei quali si stima 35 non siano più in vita. In cambio è pronta a continuare a svuotare le sue carceri di prigionieri palestinesi, ma non a formalizzare una fine la fine del conflitto aprendo poi la strada alla fase della ricostruzione.

Hamas da parte sua riteneva di procedere secondo la tabella di marcia concordata, come diversi rappresentanti del movimento hanno fatto sapere a media regionali e internazionali. «Se non c'è un obiettivo chiaro per porre fine alla guerra e un ritiro completo, non ci si può aspettare il rilascio di tutti gli ostaggi», hanno detto due fonti citate dal giornalista arabo-israeliano Jacky Khouri di Haaretz.

L’importanza degli ostaggi per Hamas cresce quanto più procedono gli scambi, visto che non ha altre carte in mano nel braccio di ferro con Israele. Liberarli senza garantirsi un orizzonte politico rischia di minare qualsiasi chance di sopravvivenza del movimento.

La volontà di Netanyahu di svicolare da questa nuova fase era emersa già all’inizio del mese. Le trattative per definire i dettagli della fase due sarebbero dovute iniziare nel sedicesimo giorno dall’inizio dell’accordo, ma Bibi le ha evitate fino a molto più tardi. Ora la delegazione israeliana, partita per il Cairo giovedì per incontrare mediatori di Egitto, Stati Uniti e Qatar e rientrata il giorno successivo, dovrebbe continuare le discussioni da remoto durante il sabato.

La questione del corridoio di Filadelfia era già stata al centro del dibattito pubblico israeliano la scorsa estate. In luglio Bibi si era rifiutato categoricamente di dare il via libera al ritiro da questa lingua di terra dipingendola come un crocevia strategico fondamentale e sostenendo addirittura che, qualora i soldati si fossero ritirati, gli ostaggi israeliani sarebbero potuti essere deportati in Iran.

Canale 14, la rete commerciale ultranazionalista che durante la guerra ha fatto da megafono a Netanyahu ed è volata negli ascolti, ha subito dato credibilità al rischio di un loro possibile trasferimento in Iran rilanciando il tema nel programma di punta “Patriotim”. Malgrado gli stessi apparati di sicurezza israeliani lo considerassero fantascienza.

Il movimento delle famiglie degli ostaggi ha invece accusato Netanyahu di usare la questione del corridoio in modo pretestuoso per prolungare la guerra e garantire in questo modo anche la sopravvivenza della sua coalizione politica. Il programma di satira “Erez Nehederet”, il più famoso nel Paese, ha preso in giro il premier accusandolo di inventarsi continue scuse per evitare l’accordo. Con l’arrivo di Trump e l’intesa di gennaio Bibi aveva infine accettato in linea teorica il disimpegno, ma ora, all’atto, sembra tirarsi indietro.

Nel frattempo il leader dell’opposizione Yair Lapid continua a far parlare di sé sui giornali locali per aver lanciato, a inizio settimana, un nuovo piano per la striscia di Gaza. In poche parole il piano è quello di trasferire la responsabilità della sicurezza per la Striscia all'Egitto in cambio della cancellazione del debito che il Cairo detiene nei confronti degli Stati Uniti.

Povertà e follia

Il giornale conservatore di destra Makor Rishon lo ha subito attaccato per l’iniziativa. «[A Camp David] l’Egitto, che con Israele era pignolo su ogni metro nella zona di Taba, non era nemmeno disposto a sentir parlare di riaccettare [la Striscia], piena com’era di palestinesi poveri ed estremisti, fan della loro nemesi, i Fratelli Musulmani», ha scritto. «Oggi è solo più armata, più affollata, più povera. E più impazzita».

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