La richiesta del procuratore della corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan di emettere mandati di incriminazione paralleli sia per il premier e il ministro della Difesa israeliani che per i vertici di Hamas non crea un’equivalenza tra un governo democraticamente eletto e un’organizzazione terroristica.

La Cpi fa esattamente ciò per cui è nata: nessuno – nemmeno una democrazia – è esente dalle conseguenze dei propri atti. L’impunità non può esistere per nessuno.

Ciò che è in discussione quindi non è la natura di questo o quel governo (stato o semi stato), ma il giudizio sulle azioni. Ecco perché è sbagliato dire che l’equivalenza è tra il governo di Israele e Hamas: non è così. L’equivalenza è tra ciò che ha commesso Hamas (il pogrom del 7 ottobre con 1.200 morti accertati e oltre 200 rapiti) e la rappresaglia israeliana (35.000 morti stimati).

L’avevamo scritto: scatenando la sua furia, Hamas è riuscita a trascinare Israele nel suo abisso di morte e distruzione ma anche di confusione giuridica. Interessante notare che oltre a Yahiya Sinwar viene chiesta un’incriminazione anche per Ismail Haniyeh: la Cpi non riconosce alcuna differenza tra ala militare e ala politica di Hamas e mette un freno alle ambizioni della Turchia di distinguere fra le due.

L’aspetto notevole dal punto di vista giuridico è che la Corte non accetta la rappresaglia israeliana come legittima: senza che sia stabilito quale, si intuisce che viene posto un limite al “diritto di difendersi” invocato da Israele. Tale diritto non giustifica tutto – dice la Corte – non può essere considerato illimitato. D’altronde, salvo alcune dirigenze occidentali, tale è l’opinione prevalente un po’ dappertutto: nemmeno tra le popolazioni europee e americana c’è unanimità su ciò che sta facendo il governo israeliano.

Anzi: nemmeno in Israele stessa. Il governo Netanyahu ha cercato di fare accettare la propria ritorsione come un “diritto”, ma dopo 35.000 morti quasi nessuno avalla più tale tesi.

Khan non pronuncia mai la parola “genocidio”, ma accusa le due parti di “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”: anche se in termini giuridici ciò non ha alcun valore, si tratta di una convinzione ormai largamente maggioritaria, come si vede anche nell’irritazione dell’amministrazione Usa nei confronti di Netanyahu.

La decisione del procuratore diviene inoltre un boomerang per l’occidente: il sud globale – a iniziare dal Sudafrica – può manipolarlo, usando le sue armi contro di lui. La Cpi è stata voluta dagli europei, che ora non sanno come reagire e si dividono sul riconoscimento dello stato palestinese. Così Russia e Cina possono permettersi di restare – con malcelata soddisfazione – neutrali, invocando (con molta ipocrisia) “equanimità” ed “equidistanza”. Né Mosca né Pechino né tanto meno Washington hanno mai ratificato l’esistenza della Cpi e il Trattato di Roma che la istituì.

L’avevamo previsto su queste pagine: Israele doveva reagire subito alle accuse sudafricane e cambiare linea perché un aggravamento era nell’aria. Ora la Cpi lo realizza, e sarà difficile sfuggire alla trappola: Israele non è sola al mondo e non può immaginarsi di vivere in un universo tutto suo. Deve cioè mettere le proprie ragioni a confronto con quelle degli altri: difficile, scomodo, ma ormai obbligatorio. Le sirene dei suprematisti che dicono agli israeliani di non curarsene stanno portando il paese nel baratro: nessun paese è un’isola.

Danno oggettivo

Ora per Netanyahu e i suoi il danno reputazionale è immenso, ma c’è anche quello oggettivo: per loro sarà difficile spostarsi, e saranno trattati come paria. Difficile anche per le autorità degli Stati Uniti continuare a reprimere le manifestazioni filopalestinesi nelle proprie università: gli studenti ora hanno la Corte dalla loro (e non hanno più bisogno di infiltrati a spingerli, se del caso).

Avevamo scritto che Khan alcuni mesi fa era stato davanti a Rafah dal lato egiziano, dove aveva fatto un discorso da prendere molto sul serio. Israele non ha voluto ascoltare, e ora è messa all’angolo. Paradossalmente la Cpi le offre tuttavia una via di uscita: spingere a liberarsi del suo ingombrante premier e dei suoi maggiori sostenitori.

Finora non c’è stato il coraggio di farlo, ma è ora di dire basta per abbracciare una delle ipotesi che viene offerta da alleati e amici, americani, europei o sauditi. La più probabile riguarda una Striscia di Gaza transitoriamente sotto controllo internazionale per poi diventare – molto in là nel futuro – parte dello stato palestinese.

Ciò che i suprematisti laici e i millenaristi religiosi israeliani hanno aborrito fino a ora, cioè la tesi dei due stati, con la Corte diviene di nuovo possibile, non fosse che per il fatto di rimanere l’unica soluzione ancora sul tavolo. L’altra – lo stato binazionale e bireligioso – è ormai del tutto tramontata. Ora a Israele non resta che fare i conti con sé stessa. Ma deve fare presto.

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