- Il dossier sul nucleare iraniano, e i conseguenti tentativi di giungere a un accordo multilaterale, rappresenta uno dei classici esempi di diplomazia a geometria variabile che coinvolge Israele, gli Stati Uniti e l’Iran.
- L’arma atomica in mano al regime degli Ayatollah è per Israele la più grave minaccia strategica immaginabile.
- L’accordo che prevedeva il contenimento delle sanzioni e dei piani nucleari di Teheran è entrato in crisi con l’èra Trump. Ma le difficoltà nel tutelare i propri interessi nell’area agitano ancora il paese. Questo articolo si trova nel nuovo numero di SCENARI – il settimanale di geopolitica di Domani. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola.
L’arma atomica in mano al regime degli Ayatollah è per Israele la più grave minaccia strategica immaginabile, e per tali ragioni negli ultimi decenni ha alternato politiche diplomatiche a elementi di hard power volti a rallentare il programma nucleare iraniano. Prima della rivoluzione del 1979 il governo israeliano non nutriva preoccupazioni nell’immaginare un Iran dotato di arma nucleare, tanto da aver avviato, sul finire degli anni Settanta, diverse interlocuzioni con alti esponenti dell’esercito della monarchia iraniana per rafforzare la cooperazione militare tra i due paesi.
Il cambio di schieramento internazionale, e l’aggressiva postura revisionista e anti israeliana assunta dalla neonata Repubblica islamica dopo il 1979, ha cambiato le carte in tavola. Se inizialmente il nuovo leader del paese, Khomeini, interrompe lo sviluppo del piano nucleare messo a punto dalla monarchia, e apre un dibattito interno alla classe dei religiosi sulla liceità dell’arma nucleare sotto il diritto islamico, con il passare degli anni le istituzioni iraniane si convincono della necessità di tornare a sviluppare il programma.
Dalla fine degli anni Ottanta, grazie all’avvio di una cooperazione segreta con esponenti del programma nucleare pakistano, l’Iran avvia sottotraccia, a insaputa del mondo intero, il suo piano. Siti strategici vengono costruiti in tutto il paese, a grandi profondità o mimetizzati sotto falso nome: per diversi anni Teheran riesce a nascondere le sue intenzioni agli Stati Uniti e a Israele.
L’azione di Israele
Nel 2002 l’organizzazione dissidente iraniana Mojahedin-e Khalq (Mek) rivela al mondo l’esistenza dei due impianti nucleari di Arak e Natanz. Nel 2004 Abdul Qadeer Khan, ingegnere considerato il “padre” del programma nucleare pakistano, confessa in diretta tv di aver aiutato lo sviluppo dei piani atomici in Iran e in Corea del nord tramite consulenze e la vendita segreta di tecnologie. Israele a questo punto decide di passare all’azione, e l’elezione del presidente iraniano Ahmadinejad, ultraconservatore con posizioni antisioniste, rafforza tale decisione.
Dal 2005 si registrano decine di operazioni di sabotaggio ai danni dei principali centri di ricerca e sviluppo legati al programma nucleare iraniano: tra gli attacchi più noti quello all’impianto di Natanz, nel 2006, e soprattutto il cyberattacco con il virus informatico Stuxnet del 2010, che ha causato enormi danni al funzionamento delle centrifughe presenti nel paese.
Nel biennio 2010-2011 vengono, inoltre, eliminati tre importanti scienziati iraniani legati al programma nucleare: il professor Ali Mohammadi e il dottor Shahriyari, entrambi uccisi tramite un ordigno esplosivo rispettivamente nel gennaio e nel dicembre del 2010; e il professor Rezaei Najad, ucciso da due uomini in motocicletta nelle strade di Teheran. Queste politiche aggressive dei servizi di sicurezza israeliani, coadiuvate da un’intensa azione a livello diplomatico, hanno comportato notevoli ritardi sui progetti nucleari iraniani.
Obama e il Jcpoa
L’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama era convinto che il medio oriente potesse raggiungere un punto di equilibrio solo con un maggior coinvolgimento dell’Iran nelle dinamiche regionali.
L’accordo per il nucleare (Jcpoa), firmato nel 2015 dall’Iran e dall’Unione europea e dai cinque stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania, fortemente voluto dall’amministrazione democratica statunitense, non verrà mai digerito da Israele. Al contrario, il governo israeliano vedeva l’accordo come un assist a Teheran, alla sua legittimazione internazionale, e soprattutto alle sue politiche regionali assertive, giudicando il Jcpoa privo dei necessari contrappesi e delle necessarie limitazioni agli strumenti propri della politica di potenza iraniana.
Il ritorno della pressione
In seguito, la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti rappresenta per Israele la possibilità di tornare, di comune accordo con lo storico alleato, a esercitare una politica di massima pressione sull’Iran. L’amministrazione repubblicana a Washington descrive, nel suo documento strategico di sicurezza nazionale, Teheran come primo problema della regione: è uno «stato sponsor del terrorismo», che tenta di espandere la sua «influenza maligna» nell’area.
La visione di Trump sul medio oriente prevedeva una continuità con l’amministrazione Obama riguardo alla volontà del disimpegno, ma una netta discontinuità sugli equilibri regionali. L’uscita degli Stati Uniti dal Jcpoa nel 2018, il ripristino delle sanzioni contro l’Iran, l’architettura degli accordi di Abramo del 2020 e infine l’eliminazione del generale iraniano Soleimani in Iraq, palesano tale discontinuità ed evidenziano la ritrovata partnership strategica con Israele.
Israele che sul finire del 2020 mette a segno due importanti colpi nei confronti delle ambizioni regionali iraniane: l’eliminazione di Mohsen Fakhrizadeh, figura cardine del programma nucleare di Teheran, e di Muslim Shahdan, alto comandante dei Pasdaran, mentre attraversava il confine tra Iraq e Siria. Operazioni che avvengono due settimane dopo la vittoria elettorale di Joe Biden, e che colpiscono due personaggi legati rispettivamente al nucleare e alle politiche regionali iraniane: un messaggio che Israele ha mandato anche a Washington, per ribadire che il cambio di colore nell’amministrazione americana non avrebbe cambiato il nuovo corso degli eventi in medio oriente.
Biden e lo stato delle cose
Non è un mistero che Biden sia un ammiratore dell’accordo sul nucleare del 2015, e ha criticato aspramente Trump per l’uscita unilaterale nel 2018. La nomina di Jack Sullivan come Consigliere per la sicurezza nazionale (figura centrale nelle trattative propedeutiche alla chiusura del Jcpoa) è stato un ulteriore elemento a supporto della volontà di rinegoziare un accordo con l’Iran da parte della nuova amministrazione. Amministrazione che però ha dovuto ponderare tale volontà con elementi contingenti che ne hanno deviato il percorso: su un piano interno, la campagna di vaccinazione, la recrudescenza della pandemia, e la conseguente crisi economica e sociale, hanno costretto gli Stati Uniti a procrastinare alcuni dossier globali.
Inoltre, Biden ha ritrovato un medio oriente profondamente diverso rispetto a quando era vicepresidente. Le politiche di Trump ne hanno modificato la struttura: l’amministrazione repubblicana ha legato il tema della sicurezza del Golfo con il dossier israeliano, restringendo ancora di più gli spazi di manovra per Biden nell’approccio con l’Iran. Con la consapevolezza, quindi, che un nuovo accordo con Teheran debba per forza di cose soddisfare a pieno Israele e i paesi del Golfo, e di conseguenza contenere grossi contrappesi alle capacità militari iraniane.
Il procrastinare di Washington iniziale, e la postura non dialogante assunta dal nuovo governo iraniano guidato dal conservatore Raisi, hanno contribuito a chiudere le finestre di opportunità per giungere a un accordo.
Israele in questa partita continua a svolgere un importante ruolo diplomatico: viste le difficoltà nel tutelare i propri interessi in un accordo multilaterale tra grandi potenze, le istituzioni israeliane si sono concentrate sul ritardare l’eventuale firma. La scorsa estate, mentre circolava una bozza di testo sulla quale sembrava potesse esservi una convergenza tra Iran, Stati Uniti e paesi dell’Ue coinvolti, Israele ha avuto incontri diplomatici di alto livello per impedire la firma: come dichiarato dallo stesso premier Lapid lo scorso settembre, «Israele sta conducendo una campagna diplomatica di successo per fermare l’accordo nucleare e impedire la revoca delle sanzioni contro l’Iran».
L’attuale crisi in Iran può aiutare la missione israeliana: è complicato immaginare, nel breve periodo, un dialogo tra i paesi europei e gli Stati Uniti nei confronti dell’attuale governo iraniano, che porti a un allentamento delle sanzioni e a concessioni sul programma nucleare. Allo stesso tempo, la mancanza di un quadro giuridico multilaterale, e l’ipotesi – estrema, ma ventilata a più riprese negli ambienti conservatori di Teheran – di un’uscita dell’Iran dal Trattato di non proliferazione nucleare, costringerebbero Israele ad alzare il livello delle proprie azioni di deterrenza nei confronti della Repubblica islamica, con i conseguenti rischi di un’escalation tra i due paesi.
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