Il dibattito sul conflitto Israele-Hamas riflette sempre più la logica social dei fronti contrapposti, ormai introiettata anche dai media tradizionali. Altre strade sarebbero più utili per incidere sullo scenario bellico
«Dobbiamo entrare a Gaza ed eliminare ogni traccia di Hamas. Dobbiamo reagire all’eccidio subito». «Il nostro attacco è giustificato da decenni di occupazione e di embargo che ci privano di ogni più elementare libertà». «L’occupazione è figlia dell’attacco subìto da intere coalizioni di paesi arabi che volevano cancellarci. Nel 1948, nel ’67, nel ’73. Poi l’intifada del 1987, la seconda del 2000». E si potrebbe indietreggiare ancora. Fino al primo omicidio di Caino e Abele.
Prima lezione da imparare: la violenza è sempre circolare. Nel momento in cui si sente qualcuno, non importa quale titolo abbia, attribuire responsabilità ad un solo soggetto coinvolto nel conflitto, siamo nel campo dell’ideologia, che fissa arbitrariamente un’origine, alimentando il circolo della violenza attraverso il misconoscimento delle ragioni dell’altro. E quali siano le ragioni da riconoscere è presto detto: il diritto all’autodeterminazione dei due popoli, ebraico e palestinese. Il diritto ad uno territorio per l’uno e a uno per l’altro. Confini e capitali sono tutte questioni trattabili.
L’ipotesi binazionale
L’ipotesi binazionale evocata da Guido Rampoldi, il cui articolo contiene innegabili verità, qui non appare come un’opzione perché misconosce alla base le ragioni costitutive di Israele: la costruzione di un territorio a maggioranza ebraica dove l’ebraismo può, finalmente, sviluppare la propria cultura. Nemmeno il nome Israele potrebbe resistere a una simile ipotesi. Tanto vale, allora, restare in diaspora, dove oggi sarebbe anche più garantita l’incolumità degli ebrei.
In aggiunta, il paragone col Sudafrica, tanto amato dall’umanitarismo assimilazionista occidentale e per questo sfruttato dalla retorica araba, è fuorviante perché non tiene conto del fattore religioso che qui è esattamente ciò che divide. Assai più perseguibile l’ipotesi (stando nella fantapolitica) di una federazione, che non richiede deportazioni di massa.
Poi, ma qui siamo nel puro messianismo, magari un giorno tutto si risolverà in un’unità armonica che oggi non sappiamo tradurre in grammatica politica.
Il midrash avvisa: non anticipare la fine! Tralascerei, poi, l’idea sionista di “casa ebraica”: o una minoritaria utopia religiosa e filosofica che prevedeva la centralità della Torah (accetterebbero gli arabi?), o un esplicito protosionismo, fondato su strategie di penetrazione della Palestina ottomana, che aderì in massa al sionismo herzliano. Secondo abbaglio del dibattito: la visione meccanicistica del rapporto azione/reazione. Come se un fatto non fosse filtrato da percorsi storici e quadri ideologici, che invece definiscono la specificità di un contesto. Una regressione naturalistica solo funzionale ad aggredire l’altro.
Le richieste
Ho già parlato qui dell’antigiudaismo islamico; non dimentico le colpe della parte a cui, volente o nolente, appartengo. Di questo governo, troppo facile. Della rimozione del mostro fondamentalista che ci cresceva in seno e che ha portato all’assassinio di Rabin. Anche delle colpe originarie del sionismo, che, come ogni fenomeno storico, ha peccati da scontare, indagati in Israele dal filone storiografico dei «Nuovi storici».
A mio parere, la miglior prospettiva per affrontare il conflitto in corso è leggerlo in termini regionali. Non significa che non si riconosca la capacità del conflitto di estendersi al di là dei propri confini, ma analizzarlo a partire dagli interessi specifici delle parti coinvolte. Si abbandoni la retorica ideologica e si chieda:
- Ad Israele di circoscrivere un obiettivo della risposta militare. Il continuo rinvio di un’invasione di terra è segno che ancora non c’è.
- All’Egitto di aprire il valico di Rafah per permettere il transito di convogli umanitari e l’ingresso dei profughi palestinesi, seppur non si ignorano le ragioni di stabilità che assillano al Sisi. L’Egitto non è la Polonia, che può permettersi di ospitare milioni di profughi ucraini senza che rappresentino una minaccia di infiltrazioni terroristiche.
- Che l’Arabia Saudita si impegni ad includere la causa palestinese nel progetto di ridefinizione del Medio Oriente tracciato dagli Accordi di Abramo.
- A Cina e Usa di cooperare alla stabilità dell’area senza ripetere lo spartito di contrapposizione dei blocchi visto altrove.
- Trovare uno spazio anche per l’Iran.
Troppi focolai di guerra stanno emergendo, si rischia la fine dell’apprendista stregone. Siamo in democrazia, ognuno può dire ciò che vuole, attenzione, però, a non alimentare la logica di conflitto già riemersa nelle nostre strade, dove antisemitismo e islamofobia hanno rialzato la testa.
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