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Entro metà novembre Israele deve approvare una finanziaria a lungo rinviata a causa della crisi politica delle quattro elezioni in due anni. Se non dovesse passare è automatico lo scioglimento delle camere.
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Gantz, che prima di unirsi al “governo del cambiamento” si era alleato con Netanyahu, sta causando frizioni con delle iniziative contro i palestinesi, come la messa al bando di alcune ONG e l’espansione degli insediamenti.
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Fra i rischi per la coalizione c’è anche un possibile ritiro di Netanyahu dalla leadership dell’opposizione: in quel caso è probabile tornino al potere le destre, mettendo fuori gioco l’alleanza eterogenea alla base del governo.
Chi fa dichiarazioni che provocano ricadute internazionali in maniera irresponsabile, senza coordinamento o preparazione, e approva 3.000 unità abitative in Giudea e Samaria (il termine ebraico che identifica la Cisgiordania, ndr), come possiamo dire, di sicuro non è Yitzhak Rabin». Il tweet del partito laburista israeliano, diffuso lo scorso mercoledì, era rivolto polemicamente al ministro della Difesa Benny Gantz, ex capo dell’esercito e ora leader del partito centrista Blu e bianco.
La stoccata all’alleato di coalizione allude al suo debole per il grande ex generale e primo ministro rimasto ucciso da un estremista ebreo al culmine degli accordi di Oslo coi palestinesi nel 1995 (a chi scrive, prima della prima tornata elettorale del 2019, Gantz aveva detto «essere paragonato a Yitzhak Rabin è il miglior complimento che mi si possa fare in assoluto»). E gli rimprovera l’iscrizione alla lista nera dei gruppi terroristici di sei organizzazione della società civile palestinese, ufficializzata lo scorso venerdì, nonché l’approvazione di nuove unità abitative nei territori occupati.
La condotta di Gantz contribuisce a far affiorare tensioni latenti all’interno della coalizione di governo israeliana, che ha messo fine a oltre 12 anni consecutivi di dominio di Benjamin Netanyahu. Gantz non avrebbe comunicato in anticipo la decisione sulle ong agli alleati, fra cui i due altri pilastri della coalizione, il primo ministro Naftali Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid, lasciando che venissero presi alla sprovvista dalla bufera di proteste internazionali.
Le organizzazioni sono Addameer, Al-Haq, Bisan Center, Defense for Children International Palestine, Samidoun Palestinian Prisoner Solidarity Network, e Union of Agricultural Work Committees, tutte accusate di legami col “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina” e per esteso di attività terroristiche.
Posizione scomoda
Le spaccature nell’esecutivo diventano palesi alla vigilia del voto decisivo sulla finanziaria 2021-2022, che potrebbe andare al vaglio della Knesset già il prossimo mercoledì o giovedì. Se la legge di bilancio, a lungo rinviata a causa della crisi politica delle quattro elezioni in due anni a cavallo della pandemia, non dovesse venire approvata entro la scadenza del 14 novembre, la Knesset, il parlamento israeliano, verrebbe automaticamente sciolto, e si andrebbe a nuove elezioni.
«Non credo che si arriverà a tanto», dice Nadav Eyal, commentatore israeliano e autore di “Revolt, La ribellione nel mondo contro la globalizzazione”. «Ma non c’è dubbio che la coalizione viva nuove lacerazioni». Ad agitare le acque c’è anche una citazione rubata del premier Bennett. «Prevedo che la rotazione (secondo cui Lapid dovrebbe sostituirlo nell’agosto 2023) non si farà, il governo verrà probabilmente dissolto fra la finanziaria e quella data, per una serie di ragioni», avrebbe detto il primo ministro.
Secondo Eyal «la vicenda delle ong dimostra come Benny Gantz si trovi in una posizione scomoda. Non è lui l’architetto di questa coalizione, era andato al governo con Netanyahu che poi lo ha scaricato, e sente il proprio ruolo come inadeguato». Gantz, che prima di unirsi al «governo del cambiamento» aveva «tradito» l’ex compagno di partito Lapid, accettando di allearsi con Netanyahu per mettere fine al ciclo infinito di tornate elettorali, «viene vissuto come un terzo incomodo».
Anche a Washington non è piaciuta la sorpresa della messa al bando delle ong, mentre dall’Europa piovono critiche secondo cui Israele soffocherebbe la società civile palestinese usando come pretesto i rischi alla sicurezza. In questi giorni una delegazione che comprende un rappresentante del ministero degli Esteri e un agente dello Shin Bet, i servizi segreti interni, è stata inviata d’urgenza negli Stati Uniti per fornire ragguagli quanto alla presa di posizione israeliana.
«La delegazione andava mandata prima, non dopo la dichiarazione», dice Eyal, «è un errore di comunicazione che mi ricorda l’attacco alla torre di Gaza che ospitava gli uffici della Associated press e di Al Jazeera durante la guerra coi miliziani della Striscia lo scorso 15 maggio: l’ex generale Nitzan Alon ha appena pubblicato le carte di un’inchiesta secondo cui il danno di immagine ha di gran lunga superato il beneficio strategico», spiega. «È un classico errore israeliano, non c’è comunicazione fra i ministeri».
Attacchi a Yamina
Un’altra minaccia alla coalizione è che Yamina, il partito del primo ministro Naftali Bennett, è costantemente sotto attacco da parte degli oltranzisti di destra e dei sostenitori di Netanyahu, che lo accusano di tradimento. Dal momento che l’esecutivo gode del sostegno di solo 61 deputati su 120, una sola defezione potrebbe causare la caduta del governo o perlomeno renderlo incapace di agire in maniera funzionale.
Dall’altro lato la frattura ideologica con la sinistra di Meretz, favorevole a un riavvicinamento con i palestinesi, si sta acuendo sulla scorta dell’editto sulle ong e del via libera all’espansione degli insediamenti, arrivato in apertura di settimana (quella israeliana inizia la domenica, dopo lo Shabbat).
Il ministero dell’Edilizia domenica ha pubblicato il bando di gara per la costruzione di 1.300 nuove case, fra cui 729 a Ariel, città universitaria nel cuore dei territori occupati, 346 a Beit El, la comunità a nord di Ramallah nota anche per la sua produzione vinicola, 102 e 96 rispettivamente negli insediamenti minori di Elkana e Adam.
Nelle giornata di mercoledì Cogat, l’organo militare israeliano responsabile per la gestione degli affari amministrativi nei territori, ha portato avanti l’iter per l’autorizzazione di altre 1.804 unità abitative. l portavoce della Casa Bianca Ned Price si è detto «molto preoccupato» per le nuove costruzioni.
Giovedì una dichiarazione congiunta di 12 paesi europei, fra cui l’Italia, ha condannato l’iniziativa, e da Washington sono arrivate altre critiche dure ed esplicite. Meretz ha protestato con gli alleati di governo di destra. «C’è preoccupazione per una serie di iniziative unilaterali intraprese da ministri del gabinetto, quanto a politiche nei confronti dei palestinesi nei territori e in particolare riguardo l’espansione degli insediamenti», si legge in un comunicato.
Il ritiro di Netanyahu
Al di là delle fratture ideologiche, la maggioranza degli analisti concordano sul fatto che un possibile ritiro di Netanyahu dalla leadership del Likud sia il rischio più grosso per la coalizione. Diversi partner del governo, in primis le compagini della destra, non disdegnerebbero un’alleanza con il suo partito laddove venisse meno l’ingombro della sua figura. «Se il voto sulla finanziaria dovesse passare, come è probabile, non si può escludere che Bibi, settantaduenne, decida di non avere tempo da perdere all’opposizione. Non è fatto per rimanerci per anni, non siamo più negli anni Novanta», dice Nadav Eyal.
Proprio in questi giorni un esponente degli ultra-ortodossi, suoi alleati tradizionali, ha criticato la politica di boicottaggio delle commissioni della Knesset. I membri dell’opposizione si rifiutano di partecipare, su ordine di Netanyahu, per protesta contro il governo. Di contro, però, perdono un’occasione per influenzare i processi decisionali, un fatto che causa malumori fra i haredi in tempi di legge di bilancio (molti vivono di sussidi che i laici vogliono cancellare) e anche fra alcuni compagni di partito.
La buona notizia per il governo è che quello che sembrava il tallone d’Achille della coalizione, cioè la presenza per la prima volta nella storia di una rappresentanza della minoranza arabo-israeliana, non sembra per ora causare grattacapi. Con la finanziaria in programma, il leader di partito Mansour Abbas si prepara a portare a casa finanziamenti importanti per le municipalità arabe, con un piano da 9,4 miliardi di dollari per lo sviluppo socio-economico fra il 2022 e il 2026. Abbas, che avrà un ruolo nell’orientare la gestione dei fondi, ha definito «storico» il programma che prevede forti miglioramenti per le infrastrutture in zone a lungo dimenticate e per l’approvvigionamento di elettricità. A lui ora non conviene per nulla staccare la spina.
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