Mentre Netanyahu si applica alla pulizia etnica di Gaza nord per mezzo di fame e bombardamenti, i suoi apparati e la destra americana tentano di parare il probabile ordine di cattura contro il premier israeliano in arrivo dall’Aja.

L’occasione la offre una storia fumosa che affiora all’improvviso sul Wall Street Journal, poderoso quotidiano caro alla destra Usa, ed è ripresa dai media israeliani che ossequiano Netanyahu, i più: un’impiegata della Corte penale internazionale sarebbe stata molestata dal procuratore Karim Khan.

Però l’impiegata resta anonima, non risultano denunce, il procuratore smentisce. Secondo le dichiarazioni che il Wsj attribuisce a un anonimo funzionario israeliano, «il quadro comincia a essere chiaro»: il procuratore avrebbe chiesto alla Corte penale internazionale (Icc) l’emissione di ordini di cattura contro Netanyahu e il suo ministro della Difesa Gallant «con il proposito di ottenere i favori della sinistra progressista globale e proteggersi dalle accuse» della misteriosa accusatrice. Dal che si capisce soprattutto che apparati israeliani sono in qualche modo coinvolti nello “scoop”.

L’attacco di Bibi alla Cpi

Eppure la vicenda non dovrebbe riguardarli. Ed è curioso che la notizia sia proposta al pubblico proprio mentre il governo Netanyahu è impegnato in un’acrobazia: un mese fa ha formalmente richiesto alla Corte di rinunciare a indagini e ordini di cattura per difetto di giurisdizione; ma allo stesso tempo cerca di chiudere un’operazione vistosamente criminale nel nord della Striscia.

Nelle parole di Haaretz il piano prevede di «occupare larghe aree di Gaza, espellere la popolazione, distruggere le abitazioni, costruire nuove strade e avamposti militari permanenti; e, proprio in questi giorni, spingere un piano per trasferire il controllo civile di Gaza a compagnie private, pagate per quel compito». In sostanza la responsabilità legale e morale del controllo di Gaza sarebbe affidato a contractors che affiancherebbero l’esercito, come in Iraq.

Si fa il nome della GDC, una compagnia israelo-americana che ha già operato in Mesopotamia e in Afghanistan. Il suo ceo, Moti Kahana, dichiara al quotidiano Yedioth Ahronoth che, se «accadesse qualcosa, manderemmo un messaggio chiaro ai residenti in Gaza: non vi conviene darci fastidio». Ecco un biglietto da visita che non lascia dubbi circa i metodi in uso presso quella gente di mano.

Per quanto sia evidente che sul medio periodo anche europei e americani rischiano di pagare caro la mostruosità degli acts of genocide in corso a Gaza, i governi occidentali al momento non fanno molto per frenarli, vuoi per una certa inettitudine delle classi dirigenti, vuoi perché come paralizzati dall’attesa della rappresaglia israeliana sull’Iran e delle presidenziali americane. Netanyahu tifa Trump e farà il possibile per favorirlo, anche nella previsione che con il repubblicano acquisterebbe slancio l’aggressione all’Icc.

A suo tempo l’amministrazione Trump aveva cercato di intimidire la Corte con sanzioni ad personam contro suoi giudici, in seguito revocate da Biden ma tuttora appoggiate dalla maggioranza della House of Representatives.

Le minacce a Khan

Lo scorso aprile 12 senatori repubblicani, incluso il capogruppo al Senato McConnell, avevano intimato a Karim Khan di non muovere accuse a Netanyahu, “avvertimento” vergato in uno stile malavitoso: «Se tu emetti un ordine di cattura contro il leader israeliano, noi lo considereremo una minaccia non soltanto alla sovranità di Israele, ma anche alla sovranità degli Stati Uniti... Prendi di mira Israele e noi prenderemo di mira te… Se tu vai avanti noi porremo fine al sostegno americano per l’Icc, metteremo sanzioni sui tuoi collaboratori e associati, bandiremo te e i tuoi familiari dagli Usa. Sei stato avvertito».

Suonava come la minaccia di un character assassination, ma il procuratore non si era spaventato. Nel maggio scorso aveva chiesto l’emissione di ordini di cattura contro Netanyahu e Gallant (la decisione della Corte è ancora pendente). La reazione israeliana era stata stizzita e inefficace.

In Italia alcuni media avevano ricordato che Karim Khan è un musulmano, volendo alludere a un’ostilità pregiudiziale contro gli ebrei (il procuratore aderisce all’islam Ahmedi, una delle religioni più tolleranti del pianeta). Un editorialista aveva buttato là che il Khan è scozzese, e gli scozzesi, aveva ricordato, sono un po’ antisemiti (oltre che avari, dicono).

Emma Bonino aveva difeso il procuratore, che conosce dai tempi in cui entrambi contribuirono alla nascita del Icc, e un sito italiano sempre allineato col governo israeliano si era vendicato lanciando il boicottaggio della sua candidatura al parlamento europeo in quanto «amica sfegatata dell’Islam… ignobile… l’opposto di Pannella».

Regole nel mirino

Negli ultimi mesi le “pressioni” esterne sull’Icc sono state riattivate, tanto che Karim Khan ha sentito il bisogno di segnalare cosa è davvero in gioco, questo: «L’attacco alla Corte mette a rischio il sistema di relazioni internazionali basato su regole, quale è stato faticosamente costruito dopo la Seconda guerra mondiale». «Credete davvero che ci si limiterà all’Icc?» (così in un’intervista a un quotidiano del Giappone, il maggior finanziatore della Corte).

Difficile dargli torto, se consideriamo il trend: il governo israeliano dichiara «persona non grata» il segretario generale delle Nazioni unite; il suo esercito tende a considerare bersagli legittimi tutte le strutture Onu a Gaza e in Libano; cancellerie occidentali dichiarano «inopportune» le decisioni della giustizia internazionale (Icc, Icj) che li obbligherebbero ad ammettere verità a lungo omesse o negate e ad assumere iniziative conseguenti. Paradossalmente sono soprattutto democrazie non occidentali che oggi sostengono quelle corti internazionali che le democrazie europee inventarono e oggi quasi considerano un impaccio. È triste e senza onore il declino del Vecchio Continente.

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