Nel 2014 il presidente turco ha comprato l’Istanbul Basaksehir, «una squadra senza storia e senza tifosi», piazzando ai vertici del cda uomini di fiducia dell’Akp. Un progetto tecnico incentrato sul breve-medio periodo: il rais ha acquistato grandi stelle a fine carriera, è arrivato in Champions League e ha imposto la sua egemonia anche nel pallone. Oggi che l’obiettivo è stato raggiunto, il club è in zona retrocessione
A Basaksehir in questi giorni è tutto grigio. Sono grigi i grandi condomini in stile razionalista, sono grigie le sopraelevate che attraversano la collina, è grigio anche il cielo sopra lo stadio “Fatih Terim”, uno che, guarda un po’, ha pochi capelli e tutti grigi. Recep Tayyip Erdogan aveva promesso di farne la Brooklyn di Istanbul, gli è uscita una Santa Sofia in mezzo alla campagna.
Chi non sa fare...compra
Mancavano un po’ di colori, magari proprio quell’arancio e quel blu, che si fondono spesso nei tramonti sul Bosforo, ma che sono anche i colori dell’Akp, il partito di governo da 15 anni. «Il calcio era la mia passione, nel 1969, a 15 anni, giocavo nel Camialti e stavo per finire al Fenerbahçe, ma mio padre non ha voluto che facessi il calciatore», ha raccontato spesso il presidente turco. Nessuno è mai riuscito a smentirlo, o forse non ha mai voluto. In ogni caso, riprendendo un vecchio stereotipo italiano, Erdogan, non potendo fare ha insegnato, o meglio, comprato.
Nel 2014, tramite un consorzio di imprenditori vicini al partito, ha rilevato il club locale, l’Istanbul Basaksehir. «Una squadra senza storia e senza tifosi, di una zona della città che lui stesso aveva creato a tavolino quando era sindaco», spiega John McManus, autore di “Welcome to hell”, una delle più interessanti riflessioni sul legame tra calcio e politica nel paese. «Ci sono due piani di relazioni che legano il club al rais», continua lo scrittore. «Il primo è personale, perché il presidente, Goksel Gumusdag, è il marito della nipote di sua moglie. Il secondo è politico, dato che, oltre a Gumusdag, la maggior parte del consiglio d’amministrazione del Basaksehir ricopre incarichi di rilievo nell’Ak Parti».
Il dodicesimo in campo
«Il club di Erdogan», ha titolato il Financial Times nel 2018. Un’accusa forte, precisa, forse frutto più di una visione europea che di un’analisi delle fragili relazioni nella classe dirigente turca. «La squadra è un’entità indipendente», ricorda McManus. Eppure negli anni ci sono stati dei momenti imbarazzanti, almeno dal punto di vista mediatico. Nel luglio 2014, in occasione dell’inaugurazione dello stadio, la società ha voluto ritirare la maglia numero 12 indossata da Erdogan, considerandolo il dodicesimo uomo in campo.
Un gesto di riconoscenza per chi aveva preso un giovane club, nato nel 1990, e lo aveva portato dalla seconda divisione alla Super Lig al primo colpo. «In diverse occasioni il premier turco ha affermato di aver di fatto creato il club», assicura McManus, pur riscontrando come risulti davvero difficile stabilire l’esatta ingerenza del governo nella squadra.
Di intromissioni della politica nel calcio turco ce ne sono state tante, anche di più eclatanti. Negli anni '60 molte società di varie città sono state costrette a fondersi per combattere la superiorità tecnica delle grandi di Istanbul e per spostare gli equilibri dal Bosforo ad Ankara. Nel 1981 le autorità hanno promosso l’Ankaragücü non per meriti sportivi, ma solo perché pensavano che la capitale dovesse essere rappresentata in Super Lig.
Soldi sottotraccia
«Al Basaksehir nessuna decisione viene presa senza la benedizione di Erdogan», ha dichiarato Daghan Iraq, autore del libro "Football Fandom, Protest and Democracy: Supporter Activism in Turkey" al giornale norvegese Aftenpolten. Difficile che per ogni scelta si faccia una telefonata al palazzo presidenziale, ma certo l’abitudine della società di tacere sui bilanci fa pensare. «Non si conoscono gli introiti del club» chiarisce Kaan Bayazit, conduttore del popolare podcast Football à La Turca. «Avendo pochi tifosi, i ricavi da merchandising e facilities sono relativi, quindi è plausibile che una grossa fetta derivi da finanziamenti dell’Akp, ma non si può dimostrare».
Il Basaksehir ha provato ad aumentare gli incassi, cercando di portare quante più famiglie possibili allo stadio. «L’idea era di creare un nuovo profilo di appassionati, abbassando i prezzi del biglietti –ammette McManus –. In Turchia il tifoso medio è un socio del club, tutto pub e curva. È difficile che si vedano padri, madri e nonne con bambini sulle tribune. Al “Fatih Terim” c’era qualche famiglia in più, ma in fondo la gente non era particolarmente interessata». Non sono bastati neanche i numerosi appelli di Erdogan e il suo speciale legale con questa municipalità, da sempre grande bacino elettorale.
Quei fischi inaccettabili
E allora perché insistere nella crescita del club? Avendo in mano i media del paese, Erdogan non aveva bisogno di consenso, ma non poteva accettare che il dissenso si esprimesse attraverso il calcio. Nel 2011, all’apertura della Türk Telekom Arena, nuova casa del Galatasaray, il rais è stato coperto di fischi. Dagli spalti del Şükrü Saraçoğlu, dove gioca il Fenerbahce, fino a prima della pandemia si sentivano spesso cori contro il governo. «Il punto di svolta sono state le rivolte di Piazza Taksim, nel 2013, in cui gli ultras delle tre big hanno fatto fronte comune contro l’autoritarismo del presidente», confessa Bayazit. «Con il Basaksehir, Erdogan ha voluto infilarsi nell’ultima parte di società che ancora non controllava, il calcio».
E dire che il padre-padrone della Turchia ci aveva provato a mettere in riga le curve. Nel 2014 ha introdotto la Passolig card, un sistema che permetteva di acquistare i biglietti solo in formato digitale. Gli stadi si sono riempiti di telecamere dotate di riconoscimento facciale e i dati personali dei fan potevano essere trasmessi direttamente alla polizia. Versione ufficiale: si doveva contrastare la violenza, comunque diffusa. Versione ufficiosa (dei tifosi): una legge ad hoc per controllare gli oppositori e arricchire le casse presidenziali. La banca che ha vinto l’appalto per la gestione della Passolig, la Aktif Bank, faceva infatti capo alla holding Calik, di proprietà del genero di Erdogan.
Tanti soldi, tutto e subito
Il progetto Basaksehir, però, sembra arrivato a un punto morto. Nel 2014/15 e 2015/16, le prime due annate in Super Lig dopo la promozione, la squadra ha ottenuto il quarto posto. Nel 2016-17 è arrivata seconda, l’anno dopo terza. Successi raggiunti grazie a un modello economico e tecnico incentrato sul breve-medio periodo. Se la tendenza del calcio turco era puntare sui giovani e farli crescere, al Basak hanno preso la strada opposta, costruendo una rosa che per anni è stata la più vecchia del campionato e cedendo i gioielli del vivaio, come Cengiz Ünder, venduto alla Roma. Sono invece arrivati gli ex Arsenal Adebayor e Clichy, 35 e 33 anni, Robinho, a fine carriera, Arda Turan e l’ex interista Emre Belozoglu, capitano a 38 anni.
«Gli ultimi due, amici personali di Erdogan, dopo i gol esultavano spesso con il saluto Rabaa, simbolo della fratellanza islamista», ricorda Bayazit. Nella scorsa stagione il club ha centrato il primo titolo nella sua storia, ma ora che la pandemia ha colpito duro anche in Turchia, tutto si è fatto più complicato. I grandi vecchi o si sono ritirati o se ne sono andati e non sono stati sostituiti. La squadra si trova in piena zona retrocessione, al quintultimo posto. Ora che l’obiettivo della vittoria del campionato è stato conquistato, è diminuito anche l’interesse dei quadri dirigenziali verso il club e di conseguenza anche gli investimenti.
«Non ho mai creduto che il Basaksehir potesse dar vita a una dinastia - spiega il podcaster - anzi era probabile che senza nuovi acquisti sarebbero calati, ma non mi sarei mai immaginato così presto». Mancano nove gare alla fine, tempo per recuperare ce n’è, ma bisogna fare in fretta. C’è da allontanare un po’ di grigio e magari riportare un po’ di quei colori, l’arancio e il blu, che per ora si vedono solo nei tramonti sul Bosforo, 15 chilometri più a sud.
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