- La guerra in Ucraina ha comprensibilmente eclissato gli altri temi di sicurezza che sino a qualche anno fa sembravano l’unica priorità, a cominciare dalla minaccia del terrorismo jihadista.
- Eppure, nel corso del 2022 non si è fermata l’attività delle istituzioni di prevenzione e contrasto.
- In Italia non sono mancate indagini e arresti che hanno disinnescato i piani di nuovi radicalizzati, messe in ombra dall’emergere dell’estremismo suprematista e neonazista, anch’esso oggetto di monitoraggio.
La guerra in Ucraina ha comprensibilmente eclissato gli altri temi di sicurezza che sino a qualche anno fa sembravano l’unica priorità, a cominciare dalla minaccia del terrorismo jihadista.
Eppure, nel corso del 2022 non si è fermata l’attività delle istituzioni di prevenzione e contrasto, in Italia come nel resto del mondo. Si è scritto molto sulla parabola discendente dello Stato islamico, che ha da poco perso l’ennesimo califfo in Siria e, nonostante ciò, resta un’organizzazione in crescita soprattutto nel continente africano.
Sul fronte interno, non sono mancate indagini e arresti che hanno disinnescato i piani di nuovi radicalizzati, messe in ombra dall’emergere dell’estremismo suprematista e neonazista, anch’esso oggetto di monitoraggio.
Gli arresti
A fine 2021, sia l’Aise, il servizio di intelligence esterno, sia lo Scip, il Servizio di cooperazione internazionale di polizia del ministero dell’Interno, avevano segnalato la presenza di un tunisino sbarcato in Sicilia ad agosto e trasferito in un centro di accoglienza a Mestre. Secondo le autorità di Tunisi, il 25enne era affiliato a una cellula dello Stato islamico responsabile di attacchi con esplosivi nel paese nordafricano.
Le impronte digitali del sospetto, che si trovava al Centro per rimpatri di Gradisca d’Isonzo, erano state comparate con quelle fornite dall’antiterrorismo tunisino e si era giunti alla conferma dell’identità del terrorista, che è stato sottoposto ad arresto.
A marzo 2022 la Digos di Bari ha arrestato quattro cittadini albanesi residenti nel capoluogo pugliese, i quali raccoglievano denaro tramite la zakat, l’obbligo della beneficenza, con una chat WhatsApp di cui facevano parte molti connazionali, per finanziare l’imam Genci Abdurrahim Balla della moschea di Kavaje vicino Durazzo.
Il predicatore è stato condannato a 17 anni per aver reclutato militanti dell’Isis da mandare in Siria. I quattro erano apparentemente integrati, lavoravano come operai nel settore agricolo e uno persino come dipendente del Comune di Bari. Ma nella chat condividevano video di propaganda dello Stato islamico tradotti dall’arabo all’albanese e definivano il Covid «un minuscolo soldato di Allah inviato sulla terra per punire i miscredenti occidentali».
Una rete più ampia, benché non coordinata, è stata smantellata a maggio da un’operazione della procura distrettuale di Roma, su segnalazione dell’Fbi, che indicava una piattaforma del dark web a cui avevano accesso utenti italiani, per lo scambio di materiale jihadista come la rivista dell’Isis Al Naba, i contenuti di Al Furqan e manuali operativi.
L’indagine ha portato a perquisizioni e sequestri nei confronti di 29 sospetti in Italia, con vari gradi di affiliazione. Anche in questo caso, l’input dell’intelligence americana è stato decisivo per iniziare l’attività investigativa.
Le operazioni di giugno
Giugno è stato un mese particolarmente prolifico per l’apparato antiterrorismo, con due operazioni condotte dal Ros dei carabinieri e una dalla Digos della polizia di stato.
In primo luogo, l’arresto di un 37enne egiziano residente dal 2003 a Genova e poi nel Lazio, per associazione con finalità di terrorismo. I profili Facebook e Twitter del soggetto erano monitorati dal reparto dell’Arma, che ha seguito il percorso di radicalizzazione fatto di condivisione di video dell’Isis su Telegram, esplosivi e armi biologiche, ma anche tecniche di sabotaggio.
L’egiziano era in contatto con un militante dell’Isis e aveva espresso gioia per la decapitazione del giornalista americano James Foley in Siria. Nel 2021 era stato emesso un provvedimento di espulsione ma aveva fatto richiesta di protezione internazionale, negata a gennaio 2022 proprio per gli elementi emersi nelle indagini.
Sul suo smartphone era stato scoperto anche un manuale per dissimulare la propria militanza terrorista con comportamenti insospettabili, ma l’attività online l’ha tradito.
Il secondo caso, sempre opera del Ros di Trento, ha riguardato il kosovaro Mines Hodza, trovato in possesso di materiale di propaganda, sostanze chimiche e una foto in cui indossa il passamontagna dei tagliagole dell’Isis e indica il cielo con il dito indice.
Secondo l’antiterrorismo intendeva compiere un attacco e poi fuggire con la moglie in Nigeria, per unirsi alla filiale dello Stato islamico in Africa. La moglie è stata giudicata estranea ai fatti ma Hodza è ai domiciliari con braccialetto elettronico, perché si ritiene che la sua famiglia, ben integrata, possa aiutare il percorso di de-radicalizzazione con le autorità.
Il gruppo Gabar
Infine, la Digos di Genova ha coordinato l’operazione Gabar contro una rete di quattordici pachistani che si ispiravano al connazionale che il 25 settembre 2020 aveva ferito con un coltello due persone presso l’ex sede della redazione della rivista Charlie Hebdo.
Appena due mesi prima, lui e altri dodici pachistani avevano scattato una foto davanti alla Torre Eiffel con la didascalia: «Abbiate un po’ di pazienza…ci vediamo sui campi di battaglia». Uno di loro, residente a Chiavari come rifugiato prima di trasferirsi in provincia di Reggio Emilia, aveva fondato il braccio italiano del “gruppo Gabar” per comprare armi, come risulta dalle captazioni ambientali.
Gli albanofoni sembrano tra i gruppi più interessati alla radicalizzazione in Italia. Uno di loro, residente a Galatina, è stato arrestato a luglio dalla Digos di Lecce perché segnalato dall’Aisi, l’agenzia di intelligence interna, per radicalizzazione jihadista con materiale dello Stato islamico diffuso via Facebook e Instagram. Anche per lui sono stati disposti i domiciliari con braccialetto elettronico. Una misura che può sembrare rischiosa o leggera, alla luce di simili casi in Francia e Belgio finiti tragicamente, ma nel contesto italiano con maggiori garanzie di monitoraggio dato il numero limitato di radicalizzati.
Il foreign fighter marocchino Samir Bougana, prelevato da un campo dei curdi in Siria e riportato in Italia nel 2019, sta scontando una condanna a 4 anni per terrorismo nella sezione Alta sicurezza 2 del carcere di Sassari. A novembre di quest’anno è stato destinatario di una nuova ordinanza di custodia cautelare per presunte torture praticate in Siria nei confronti di due persone, attualmente rifugiate in Germania.
Elementi ricorrenti
Alcuni elementi che ricorrono in tutte queste operazioni sono la collaborazione inter-agenzia con l’intelligence (Aisi, Aise, Fbi) e istituzioni straniere, la centralità della dimensione online, l’affiliazione allo Stato islamico rispetto ad al Qaeda o altre fazioni, ma anche l’appartenenza alla prima o seconda generazione.
Varia invece la provenienza nazionale, che spazia dai Balcani, con Albania e Kosovo, al nordafrica, con Tunisia, Egitto e Marocco, fino al Pakistan. In alcuni casi si tratta di singoli radicalizzati che pianificano in autonomia, in altri di gruppi organizzati che contano più seguaci.
Prevenzione della radicalizzazione
Se sul fronte delle indagini sono stati ottenuti risultati importanti, non si può essere soddisfatti per quello della prevenzione della radicalizzazione. Neanche la scorsa legislatura è riuscita ad approvare una legge con una strategia complessiva, benché si fosse arrivati a un testo bipartisan che affrontasse sia l’estremismo jihadista sia quello di altre matrici: anarchico, suprematista o di altra ideologia.
Non è dato sapere se questo parlamento approverà finalmente una legge che intervenga a monte del problema. Nella sua Relazione di fine anno il Copasir, presieduto da Adolfo Urso attuale ministro del governo Meloni, ha segnalato l’urgenza «non più dilazionabile di un intervento legislativo».
La prevenzione si fa indispensabile anche perché le seconde e terze generazioni, una volta ottenuta la cittadinanza, andranno gestite internamente e non più con lo strumento dell’espulsione.
Tra il 2017 e il 2019 si erano toccate quasi le 110 espulsioni annue per motivi di sicurezza dello stato, mentre tra il 2021 e il 2022 si è scesi a 61 provvedimenti. Si tratta di una soluzione efficace nel breve termine, che però non risolve il problema alla radice come può fare un percorso di prevenzione e riabilitazione.
Il calo di radicalizzati che si riflette sulle espulsioni è certamente legato alla minore forza centrale dello Stato islamico, orfano di due leader in un anno, che si sta concentrando sull’espansione in Africa e medio oriente, mentre al Qaeda non ha ancora annunciato il successore di Ayman Al Zawahiri.
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