Due giorni dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2024 e un giorno dopo il sommesso discorso di concessione da parte della sua avversaria Kamala Harris, è già tempo di fare i conti con la transizione, che sicuramente sarà meno burrascosa dell’ultima volta, quando l’allora presidente si rifiutava di riconoscere la vittoria di Joe Biden. Anzi nei prossimi giorni dovremmo sapere quando arriverà l’invito alla Casa Bianca da parte dell’attuale presidente, che alle 11 ora locale si è rivolto alla nazione dicendo che ringrazia per le cose fatte in questo quadriennio e che ora il lavoro della sua amministrazione è rivolto a garantire una pacifica transizione con il suo successore, che avverrà quindi come tutte le volte precedenti, esclusa l’ultima. «Non puoi amare il tuo Paese solo quando vinci», ha detto il presidente uscente. «In democrazia la volontà popolare prevale sempre», ha aggiunto, assicurando «un passaggio pacifico di poteri» alla Casa Bianca. Infine: «Sono orgoglioso del lavoro svolto nel quadriennio alla Casa Bianca. Abbiamo cambiato in meglio l’America».

La resa dei conti dem

Tra le fila dei democratici però è l’ora delle recriminazioni e delle dita puntate contro presunti colpevoli: tra questi, la decisione testarda di Joe Biden di ricandidarsi nell’aprile 2023. No, dicono dallo staff del presidente dove ancora ci sono rancori per la burrascosa sostituzione avvenuta all’improvviso lo scorso luglio, era Harris la candidata inadeguata, anche se lo stesso presidente l’ha profusamente elogiata in una nota diffusa dall’ufficio stampa della Casa Bianca per «la straordinaria campagna» e «per la storia che continuerà a scrivere» per costruire «un’America più giusta».

Secondo un’analisi del New York Times, oltre alla vaghezza del programma, non c’è stato un messaggio stabile sul perché non dare a Trump una seconda chance: perché era «poco serio», poi perché era lì solo per aiutare i suoi amici ricchi e infine un fascista. Non c’è stato un messaggio, forse non di grande appeal, ma stabile, come quello di Biden: Trump rappresenta una minaccia esistenziale per la democrazia. Forse troppo cupo, ma la gioia, come abbiamo visto, non è bastata.

Trump lavora alla squadra

Nel frattempo, però dall’altra parte è stato costruito l’ufficio per cominciare a selezionare lo staff per la nuova amministrazione guidata dal tycoon: a comandare il team sarà Linda McMahon, ex capo dell’Agenzia per le piccole e medie imprese, e Howard Lutnick, businessman e amministratore delegato della società di servizi finanziari Cantor Fitzgerald. A catturare l’attenzione degli analisti, ovviamente, sono i nomi di chi occuperà le caselle principali, a cominciare da quella di segretario di Stato.

Trump vuole evitare di avere un nuovo Rex Tillerson, ovverosia una figura troppo indipendente della quale finirebbe presto per stancarsi: così si fanno i nomi di Marco Rubio, senatore della Florida che, come molti nel partito repubblicano, è passato dall’essere un forte critico del tycoon all’essere un suo sostenitore, ma forse proprio per questo non è una scelta troppo affidabile, così come invece lo sarebbe l’ex ambasciatore in Germania Richard Grenell, trumpiano di stretta osservanza, o il senatore del Tennessee Bill Hagerty. Per quanto riguarda invece la carica di segretario alla Difesa, ha annunciato di voler rimanere al Senato il principale contendente, ovvero il senatore Tom Cotton dell’Arkansas.

Quindi la strada dovrebbe essere spianata per uno dei più ascoltati consiglieri per la sicurezza nazionale di Trump in questo periodo di “esilio” a Mar-a-Lago, il deputato della Florida Mike Waltz, un veterano delle Forze speciali nell’esercito, decorato per il suo servizio durante la guerra in Afghanistan.

Al Tesoro invece non dovrebbe tornare Steven Munchin, uno dei pochissimi membri dell’amministrazione a essere durato per l’intero primo quadriennio, ma potrebbe andare una vecchia conoscenza del 2017-21, ovvero Robert Lighthizer, che era l’advisor del presidente sul commercio estero.

Infine, il dipartimento di Giustizia, che Trump vorrebbe usare per indagare e incriminare gli avversari: la carica di procuratore generale potrebbe andare al senatore dello Utah Mike Lee, da tempo in lizza anche per un posto alla Corte suprema, più probabilmente però sarà un fedelissimo come l’ex deputato texano John Ratcliffe, uno dei suoi maggiori difensori all’epoca delle indagini sul Russiagate condotte dal procuratore speciale Robert Mueller.

E Robert Kennedy Junior, invece? Difficile possa andare a occupare la carica di segretario alla Salute, dove le sue posizioni di opposizione ai vaccini e alla loro sicurezza potrebbero costargli la conferma anche in un Senato a maggioranza repubblicana. Più facile vada a qualche incarico meno connotato, come il dipartimento dell’Agricoltura, dove però si scontrerebbe con molti alleati del tycoon che vedono molto male la posizione proibizionista del rampollo della famiglia Kennedy sui pesticidi. Insomma, sarà probabilmente una nomina che subirà un duro scrutinio al Senato, non solo da parte dei dem.

Alla Fed, secondo la Cnn, dovrebbe rimanere in carica l’attuale presidente Jerome Powell almeno fino alla fine suo mandato, che scade nel maggio del 2026.

Musk contro Scholz

Non è ancora chiaro invece quale aspetto prenderà l’agenzia per l’efficienza governativa che dovrebbe essere guidata da Elon Musk e dovrebbe portare a duemila miliardi di tagli in un quadriennio, scelta che potrebbe portare anche a difficoltà economiche causate dai possibili licenziamenti che un piano così draconiano prevederebbe. Intanto lo stesso Musk ha già guadagnato dalla scelta di donare 130 milioni di dollari alla campagna di Donald Trump.

E ieri si è reso già protagonista di una quasi crisi diplomatica, dando dello «stupido» al cancelliere tedesco Scholz su X, commentando la notizia della fine della coalizione semaforo e delle possibili elezioni anticipate.

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