Colpevole ma libero? Oppure libero ma colpevole? L’emozione immediata fa scegliere la prima soluzione. Dopo una più che decennale persecuzione giudiziaria senza precedenti nei confronti della libertà di stampa, orchestrata dagli Usa e appoggiata dal Regno Unito con ulteriori complicità di Svezia ed Ecuador e un lungo silenzio dell’Australia, Julian Assange è libero, avendo lasciato la prigione britannica di Belmarsh dove ha trascorso oltre cinque anni.

Il team legale di Assange ha agito nel migliore interesse del suo cliente: letteralmente, per salvargli la vita. Difficilmente, date le sue gravi condizioni di salute fisica e psicologica, Assange avrebbe resistito in carcere all’ennesima, estenuante e dall’esito incerto altalena lungo i vari gradi della giustizia britannica, a seguito della decisione del mese scorso dell’Alta corte di Londra. Per non parlare della prospettiva, in caso di appello respinto, di trascorrere decenni in una prigione di massima sicurezza degli Usa.

Il patteggiamento raggiunto tra il dipartimento della Difesa statunitense e il team legale di Assange prevede un riconoscimento di colpevolezza per quattro reati minori in cambio di una condanna pari a 62 mesi, dunque non superiore al periodo già trascorso nella prigione britannica di Belmarsh: oltre 1900 giorni in una cella di due metri per tre, isolato 23 ore su 24.

Il tutto dev’essere ratificato, e speriamo che non sia vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, in un’udienza federale che si terrà nelle isole Marianne, un arcipelago statunitense nell’Oceano Pacifico occidentale a non troppa distanza dallo stato australiano del Queensland. Fatto ciò, questa terribile storia potrà dirsi conclusa.

«Questo è il risultato di una campagna globale che ha coinvolto organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni unite», ha dichiarato a caldo Wikileaks, l’organizzazione co-fondata da Assange.

Colpevole

Punto e a capo. Ripartiamo dalla doppia opzione del titolo. Per evitare di essere condannato per 18 capi d’imputazione, quasi tutti legati alla legge sullo spionaggio entrata in vigore negli Usa nel 1917 e riferiti alla pubblicazione di documenti militari riservati fornitigli dall’ex analista dell’intelligence Chelsea Manning, Assange ha dovuto ammettere la sua colpevolezza rispetto ad alcuni di quei reati.

Tra quei documenti classificati, c’erano rapporti su operazioni militari statunitensi in Iraq e in Afghanistan - veri e propri crimini di guerra dei quali nessuno è stato mai chiamato a rispondere - e informazioni sui detenuti della prigione statunitense in territorio cubano di Guantánamo Bay.

Assange ha sfidato la regola per cui il potere, qualunque potere, ha fatto qualcosa su cui è necessario imporre il silenzio: crimini di diritto internazionale, corruzione, vendite illegali di armi, collusione con la criminalità. Per questo è diventato il nemico numero uno di chi vuole usare la libertà d’informazione come mero ufficio stampa del potere.

Il messaggio, dunque rimane lì, con tutta la sua minacciosità. È rivolto al giornalismo investigativo che assolve al suo dovere di informare le opinioni pubbliche su cose che è giusto che sappiano per poter valutare l’operato di chi le governa.

Il messaggio è semplice: «Vi teniamo d’occhio, attenzione a quello che fate».

Per questo, è fondamentale che la chiusura della persecuzione giudiziaria di Assange non significhi anche la fine dell’attenzione su storie come la sua, o simili alla sua. Questo quotidiano, al centro di un’indagine, lo sa perfettamente bene.

Riprendo una parte della dichiarazione di Wikileaks: «Questo è il risultato di una campagna globale che ha coinvolto organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa (…)». Già. Mentre Assange veniva progressivamente abbandonato da coloro che avevano usato le sue rivelazioni, mentre la sua figura veniva sempre più definita “controversa” e la narrazione della sua vicenda si arricchiva progressivamente di fake news, i gruppi per i diritti umani non hanno mai mollato.

Hanno riempito per ben oltre dieci anni le piazze di decine di capitali del mondo, hanno seguito le udienze, hanno mobilitato l’arte e la cultura. E, alla fine, hanno contribuito al ritorno in libertà di Julian Assange.

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