Vi sono stati una vincitrice, Kamala Harris, e soprattutto uno sconfitto, Donald Trump, nel primo – e probabilmente unico – dibattito di questa campagna elettorale 2024. Lo sottolineano quasi unanimi i commentatori; lo certificano i primi focus groups e sondaggi che evidenziano uno scarto tra i due a favore di Harris superiore alla media storica.

Si è trattato di un dibattito abbastanza povero di contenuti, come è ormai quasi prassi nell’epoca dei social e della polarizzazione; così distante da quelli, talora fin troppo tecnici e noiosi, dell’era pre 2016 (e pre Trump). Ma anche di un dibattito vivace e non privo di sorprese.

Come e perché lo ha vinto Harris? E quale sarà il suo effettivo impatto sulle scelte ultime degli elettori? Alla prima domanda si possono offrire almeno tre, sintetiche risposte. Innanzitutto, Harris è riuscita ad apparire credibilmente presidenziale, offrendo un messaggio moderato, nella sostanza e nei toni, inclusivo e ottimista.

Rafforzando una narrazione già affinata in tanti comizi che contrappone la sua capacità di guardare verso il futuro alle nostalgie distopiche e apocalittiche che connotano invece il discorso trumpiano. Si tratta di una narrazione che rovescia i termini della discussione per come erano stati definiti fin tanto che Biden era in corsa.

È Harris che si presenta ora come la candidata del rinnovamento, della speranza e della discontinuità (con tutte le inevitabili contraddizioni che ne derivano rispetto al suo legame con Biden). Riesce credibilmente a farlo – secondo aspetto – perché dall’altra parte ha un avversario indisciplinato e radicale, caduto più volte nelle sottili provocazioni architettate da Harris e dal suo team, e incapace di sfruttare temi a lui favorevoli, a partire da quell’apertura del dibattito sulle questioni economiche che ha visto la vicepresidente incerta e vaga.

Trump, a volte lo si ignora, non è particolarmente abile nei dibattiti con gli avversari politici o con giornalisti seri e non amici. Non si prepara, improvvisa, fatica a rimanere focalizzato per più di pochi secondi sull’oggetto di cui si discute, tanto che spesso è sembrato non sapere cosa farsene dei due minuti che aveva a disposizione per ogni risposta. E, se punto sul vivo, perde facilmente controllo e lucidità. Cosa avvenuta a più riprese, in passaggi subito diventati virali sui social, dalle bufale sugli immigrati haitiani che in Ohio ruberebbero e mangerebbero cani e gatti a quelle sugli stati democratici che autorizzerebbero addirittura l’eliminazione dei neonati.

L’impreparazione di Trump si è manifestata inoltre nell’incapacità di sfruttare bene la discussione su temi a lui favorevoli – l’economia, si diceva, o l’umiliante ritiro dall’Afghanistan nel 2021 – in alcuni sconcertanti scivoloni (la candida ammissione di non avere progetto alcuno sulla sanità) e nella propensione a riportare costantemente il dibattito su immigrazione e criminalità anche quando di altro si parlava.

Diritti e identità

Il terzo aspetto da sottolineare è che invece i temi suoi Kamala Harris li ha sfruttati bene. I due momenti forse migliori della sua serata sono stati quelli in cui si è discusso di diritti delle donne e della questione razziale. Rispetto ai primi ha mostrato empatia e passione, offrendo esempi illustrativi e toccanti di donne vittime delle politiche draconiane sull’aborto adottate negli ultimi due anni da numerosi Stati repubblicani.

Sulla seconda, ha avuto gioco facile nel denunciare gli effetti divisivi della retorica trumpiana e nel ricordare i tanti esempi, vicini e lontani, del razzismo di Trump, culminato nella sua campagna del 2011 sul certificato di nascita di Barack Obama.

La domanda inevitabile è se questo dibattito elettorale sia destinato ad avere un impatto significativo sull’esito del voto. Risposte certe non sono ovviamente date, ma è lecito nutrire dei dubbi. Certo, Harris era quella che più aveva da perdere e ne esce invece rafforzata e, in una certa misura, legittimata.

Nel contesto iperpolarizzato della politica statunitense oggi, i dibattiti pesano però decisamente meno di un tempo. Certificata da mille studi e rilevazioni, la mobilità quasi nulla di voti e di opinioni riduce il peso di questi momenti topici delle campagne elettorali. Se il passato recente ci fa da guida, è difficile che l’elettore medio di Trump sia scalfito nelle sue certezze.

Laddove gli incerti, per quanto potenzialmente decisivi, sono sempre meno e tendono a scegliere per chi votare sulla base di temi molto specifici che li riguardano. Harris ha indubbiamente consolidato la sua posizione ed esponendo l’estremismo quasi caricaturale del suo avversario ha alimentato quella paura e quella preoccupazione che sappiamo spingere molti elettori democratici, anche quelli delusi, alle urne.

La partita rimane però totalmente aperta, e non si può escludere che come tanti altri presunti “spartiacque” di questa campagna – si pensi solo all’attentato a Trump due mesi fa – anche questo sia rapidamente archiviato.

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