La questione palestinese è il punto debole della campagna democratica. Kamala Harris e Tim Walz sono costretti agli equilibrismi verbali per rassicurare le lobby pro-Israele senza scontentare l’elettorato di sinistra che chiede una condanna netta delle politiche di Netanyahu
Questo articolo fa parte della newsletter “L’america di Domani”, che approfondisce gli argomenti al centro delle elezioni americane. Il primo numero dell’8 ottobre sulla questione mediorientale è gratuito, per ricevere la newsletter e continuare a leggere tutti gli approfondimenti abbonati qui
A meno di un mese dal giorno che determinerà queste storiche elezioni presidenziali americane, è sempre più chiaro che il conflitto in Medio Oriente sta influenzando fortemente l’elettorato. Non tanto gli elettori di Donald Trump, lui non ha tradito le aspettative, quantomeno a parole. Liquida la questione dicendo che questo conflitto non sarebbe mai esploso se lui fosse stato presidente, e lancia due messaggi chiari, seppur privi di un significato concreto: Israele deve «finire il suo lavoro» e se non lui verrà eletto «sarà annientato».
Diverso è il discorso degli elettori democratici, che stanno ancora cercando di mettere a fuoco la candidata Kamala Harris, e stanno attraversando una crisi identitaria rispetto al proprio partito. Si trovano a fare i conti con un presidente che, come dice lui stesso, non poteva aiutare Benjamin Netanyahu più di quanto ha fatto, e Harris, che cerca di mantenere un precario e irritante equilibrio. Gli eventi previsti il 4 ottobre per la sua campagna elettorale rappresentano un esempio eclatante di questo equilibrismo.
Kamala Harris era in uno dei cosiddetti swing states, il Wisconsin, a Ripon, un paesino di neanche 8.000 anime in cui si dice sia nato il partito Repubblicano. Accanto a lei c’era Liz Cheney, un pezzo grosso del Grand Old Party, ex deputata, ma soprattutto la figlia maggiore di Dick Cheney, il vice presidente di George W. Bush al tempo dell'attacco alle Torri gemelle. Il più influente vice della storia politica americana, l’uomo che ha diretto dietro le quinte la guerra al terrore, dall’invasione dell’Iraq alle torture inflitte ai sospetti, con tutto quello che sta in mezzo, e tutto quello che ha implicato.
Parlando al pubblico di Ripon, Liz Cheney ha detto con orgoglio di non aver mai votato il partito Democratico, ma che questa volta, di fronte alla minaccia della rielezione di Donald Trump appoggia la candidatura di Harris, e così anche suo padre. L’endorsement dei Cheney dovrebbe convincere una fetta di elettori repubblicani che non si riconoscono in Trump.
Ma resta da capire se questa fetta è maggiore o minore di quella di elettori di sinistra che non possono tollerare che Harris non assuma una posizione di condanna nei confronti di Israele, anzi continui a invocare il suo diritto alla difesa, e che vedono in questa alleanza con i Cheney un'ulteriore buona ragione per votare uncommitted, l’equivalente di scheda bianca. Anche perché al di là dell’eredità del suo nome, Liz Cheney ha apertamente esortato Joe Biden a non ritirare il suo appoggio economico e militare ad Israele.
Un difficile equilibrismo
Nelle stesse ore in cui Harris scommetteva sui repubblicani indecisi, o sui democratici simpatizzanti per Cheney (nel caso esistano), il suo running mate, l’aspirante vice presidente Tim Walz giocava sull’altra sponda. Partecipava da remoto a un incontro virtuale dal titolo “Million Muslim Votes”, organizzato da Emgage Action, una delle più grandi organizzazioni statunitensi a difesa degli interessi della comunità musulmana, e dunque anche una potente leva per il suo coinvolgimento politico.
Walz ha più che altro ricordato l’apertura che ha dimostrato alla comunità musulmana come governatore del Minnesota, e quando è arrivato il momento di parlare della guerra in corso in Medio Oriente si è detto con «il cuore a pezzi», riproponendo poi il solito disco rotto. Il genere di dichiarazione che dovrebbe rassicurare tutti, ma che agli elettori di sinistra che considerano l’amministrazione di Joe Biden complice di un genocidio provoca solo frustrazione.
Ha detto che la priorità di Harris è che «Israele sia sicuro, che gli ostaggi tornino a casa, che la sofferenza a Gaza finisca ora, e che il popolo Palestinese possa realizzare il suo diritto alla dignità, libertà e auto determinazione».
D’altra parte Emgage Action ha dato ufficialmente il suo appoggio ad Harris senza alcun entusiasmo, mettendo le mani avanti, ricordando che l’elezione di Trump renderebbe la vita più difficile ai musulmani d’America. «Non abbiamo il tempo di punire il partito Democratico», ha dichiarato una delle organizzatrici a The Guardian. Il voto dei musulmani potrebbe essere decisivo in un altro stato in bilico, il Michigan, dove risiede la più grande comunità di arabi americani, quasi 280.000 persone. Un bel numero se si considera che nel 2020 Biden è riuscito a riconquistare lo stato per 154.000 voti. E soprattutto che nel 2016 Hillary Clinton lo ha perso per soli 11.000.
Reticenze interessate
Negli ultimi anni si è parlato molto di come l’ascesa di Trump abbia messo in crisi l’identità del partito Repubblicano, e forse questo conflitto in Medio Oriente sta portando i nodi al pettine sui valori di quello Democratico. Per chi si riconosce come elettore di sinistra quello che sta accadendo è inaccettabile, sebbene non sorprendente.
L’alleanza tra gli Stati Uniti e Israele non è mai stata messa in discussione, e l’Israele di Netanyahu ha sempre fatto ciò che voleva. Recentemente con le linee rosse fissate da Biden, ma anche in passato di fronte alla richiesta di Barack Obama di interrompere l’espansione delle colonie in Cisgiordania. Come ricorda in un articolo di opinione il New York Times, nel 2016 l’allora candidata democratica Hillary Clinton aveva incluso nella sua agenda diversi punti cari all’elettorato più a sinistra, quello dei sostenitori del senatore Bernie Sanders, tra i quali un aumento del salario minimo e la legalizzazione della marijuana, ma si era rifiutata di usare la parola “occupazione” rispetto ai territori palestinesi colonizzati da Israele.
Questa reticenza condivisa da una grande fetta di partito ha radici culturali e politiche, strategiche, ma è influenzata anche da interessi economici e di potere personale. Interessi che la relativa trasparenza dei flussi di denaro intorno alla politica americana ci consente di misurare. Durante le primarie di quest’anno per l’elezione dei membri del Congresso la lobby pro-Israele AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) ha speso 90 milioni di dollari per aiutare i candidati a sostegno di Netanyahu, diventando così un “investitore” imbattibile nel processo.
Ventitre milioni solo per evitare la rielezione di due rappresentanti alla Camera, Cori Bush (Missouri) e Jamaal Bowman (New York) e indebolire il cosiddetto "squad", ovvero il gruppo di democratici progressisti eletti a Capitol Hill che hanno condannato le azioni di Israele a Gaza, con più di 41.000 morti a un anno dall’inizio del conflitto, e chiesto l’interruzione del supporto incondizionato alle forze militari israeliane.
Questo ci mette di fronte al potere delle lobby pro-Israele, ma anche al loro timore concreto, comprovato da sondaggi già precedenti all’ultima guerra a Gaza: quello di un elettorato sempre più critico nei confronti di Israele, sempre più indignato per la sua condotta, e sempre più sensibile alla causa palestinese. Sempre meno entusiasta all’idea di appoggiare una candidata che sulla guerra in Medio Oriente non prende le distanze dalle posizioni dell’amministrazione di cui fa parte, quella di Joe Biden.
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