A volte lo dimentichiamo, tutti catturati da analisi delle relazioni internazionali dominate dalle dinamiche di potenza di quella che oggi va di moda chiamare – con poca consapevolezza e molta approssimazione – la “geopolitica”.

Ma dietro le scelte della politica estera di uno Stato vi è sempre una complessa interazione tra il momento interno e quello esterno, la terrena politica nazionale (la politics) e l’alta politica estera (la policy).

Ciò è particolarmente vero per gli Stati Uniti. Una federazione, a poteri divisi e diffusi, dove talora gli stessi Stati cercano di condurre la propria politica estera; e un sistema presidenziale debole, nel quale anche in materia di relazioni esterne, l’ossuta Costituzione attribuisce poteri limitati all’Esecutivo, condivisi con un Congresso che pure su questo dovrebbe essere l’istituzione centrale.

Dovrebbe, visto che la Presidenza ha assunto un ruolo vieppiù egemone, spesso giustificato dalle responsabilità conseguite alla ascesa degli Usa a indiscussa superpotenza mondiale.

La tensione tra le esigenze della policy globale e della fin troppo terrena e provinciale politics, locale e nazionale, non è però venuta meno. Così come i costanti condizionamenti della seconda sulla prima. Misurabili in tanti modi e con diversi parametri, questi ultimi. Incluse le influenze che sul processo decisionale e le scelte ultime possono avere i gruppi etnici, religiosi, nazionali che hanno sempre composto il mosaico di una nazione d’immigrati in perenne trasformazione quali sono gli Stati Uniti.

Gli esempi che ci offre la storia sono innumerevoli, dalla mobilitazione di tanti gruppi d’immigrati a fianco del loro paese d’origine all’inizio della Prima guerra mondiale, che contribuì alla scelta della neutralità da parte del Presidente Wilson, alla decisione di Truman di riconoscere la nascita dello Stato d’Israele nel 1948, contro il parere del Dipartimento di Stato, anche per non perdere il voto di elettori ebrei in alcuni Stati chiave.

In questo ciclo elettorale l’attenzione è concentrata come non mai sulla comunità arabo-statunitense e, in subordine, su quella assai composita degli ebrei americani. Di che numeri parliamo, innanzitutto, quale influenza effettiva possono avere sull’esito del voto e quali sono alcune caratteristiche che contraddistinguono i due gruppi?

Gli ebrei americani

Gli ebrei negli Usa sono attorno al 2.5 per cento della popolazione (poco meno di 6 milioni). Solo la Pennsylvania (3.2 per cento) eccede questa percentuale tra i sette cruciali swing states che quasi certamente decideranno le elezioni (il picco è il 9 per cento nello stato di New York).

La matrice religiosa nella definizione della loro identità ebraica conta per poco più del 70 per cento e tende a calare allo scendere dell’età ed essere assai meno importante per i più giovani.

Storicamente, sostengono a larga maggioranza il Partito democratico: dagli anni Novanta a oggi, il voto ai candidati democratici alla Presidenza è oscillato tra il 70 e l’80 per cento. Tutto lascia presagire che avremo una percentuale simile per Harris.

In un contesto però in profondo mutamento. Dove l’appoggio incondizionato e bipartisan alla relazione speciale con Israele è oggi più contestato, vi è una crisi evidente del sionismo progressista e vi sono fratture che conseguono anche all’impegno profuso dalla destra israeliana per trascinare il tema dei rapporti tra Israele e Usa dentro l’arena politica polarizzata e conflittuale degli Stati Uniti.

Il gruppo di pressione pro-Israele più influente – l’Aipac (American israel public affairs committee) – appare ormai sempre più un’organizzazione schierata a fianco del Likud, e capace peraltro di usare ingenti risorse per affondare membri del Congresso democratici ritenuti troppo critici nei confronti d’Israele, come è avvenuto in alcuni recenti primarie.

La sua antagonista naturale, J-Street, è stata lacerata dalla tragedia di Gaza e deve fare i conti con una base democratica fattasi molto più critica nei confronti d’Israele e del sostegno diplomatico e militare che gli Usa continuano a offrigli.

Gli arabi americani

Più complicato è offrire un quadro preciso degli arabo-americani e del loro effettivo peso elettorale. Solo con il censimento del 2020 si è introdotta una nuova categoria, sotto quella razziale dei “bianchi”, per i cittadini provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Che sarebbero tra l’1 e l’1.5 per cento della popolazione complessiva, in maggioranza libanesi, tra i quali molti cristiani (e in subordine egiziani, siriani e palestinesi).

Una percentuale, questa, confermata da altri tentativi di quantificarla e di definirne la distribuzione regionale. Anche nel caso degli arabo-americani, si è assistito al tentativo di creare una rete di associazioni capaci di promuovere cause importanti, su tutte quella dei diritti del popolo palestinese.

Per quanto molto meno influente dell’Aipac, la Adc (Arab american anti-discrimination committee) è diventata un attore riconosciuto e attivo.

E lo è, ancor più, in questo ciclo elettorale, grazie alla presenza di comunità arabo-americane in alcuni Stati cruciali, a partire dal Michigan. Che ha la seconda popolazione araba degli Usa dopo la California, concentrata soprattutto nei sobborghi di Detroit, e la più alta in assoluto rispetto alla percentuale della popolazione (poco più del 2 per cento). E che già nelle primarie democratiche si attivò contro Biden, denunciandone le responsabilità per il dramma di Gaza.

Ma non solo di Michigan si tratta. I sondaggi ci dicono che per una larghissima maggioranza dell’elettorato arabo-statunitense, Gaza è oggi la priorità che ne determinerà le scelte ultime di voto.

Stiamo parlando di un elettorato che vota tradizionalmente democratico. E che quattro anni fa giocò un ruolo assai importante: in Michigan, sì (Biden vinse con uno scarto di 154mila voti; gli elettori arabo-americani sono più di 200mila), ma anche in Georgia (vittoria di 12mila voti, con 61mila elettori arabi) o in Pennsylvania (scarto di 81mila voti con 125mila elettori arabi). E se questi elettori – ipotesi tutt’altro che improbabile - dovessero anche in piccola parte scegliere l’astensione o orientarsi su candidati terzi, il prezzo per i democratici sarà elevatissimo.

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