Tra situazioni paradossali e rovesciamenti strategici, gli elettori osservano i loro partiti e i rispettivi candidati imbarcare ex nemici come alleati e fare scelte di segno opposto rispetto alla loro tradizione
L’America di Domani, le nostre analisi e gli approfondimenti sulle elezioni americane del 5 novembre
Essere un elettore americano non è facile. Le campagne generano spesso effetti stranianti, ma in quella per la Casa Bianca di oggi si sovrappongono così tanti rovesciamenti e paradossi che essere confusi è la norma. Qualche esempio.
Nei sondaggi Kamala Harris sta perdendo molti consensi fra gli afroamericani, in particolare maschi, e sta improvvisando nuove proposte economiche per recuperare un elettorato che non aveva mai immaginato di poter perdere. Allo stesso tempo, le donne bianche dei sobborghi stanno abbandonando Donald Trump, dopo essere state un pezzo importante della coalizione che lo ha portato alla Casa Bianca nel 2016.
Gli elettori di sinistra osservano il loro partito di riferimento e vedono, in ordine sparso, Dick Cheney (già vicepresidente di George W. Bush), Karl Rove (già superconsigliere di George W. Bush), Bill Kristol (già intellettuale di riferimento di George W. Bush) e tutta la pattuglia neoconservatrice che fa il tifo per Harris, portata in trionfo nei comizi elettorali.
Vedono una candidata che ha raccolto nel giro di tre mesi un miliardo di dollari fra megafinanziatori e grandi corporation, sostenuta da Wall Street, da mezza Silicon Valley, dall’establishment della politica estera, alla testa di un partito che ha anche abbandonato l’opposizione alla pena di morte nel suo programma.
Al vertice c’è una figura che promette un cambio di rotta rispetto all’Amministrazione in cui era vicepresidente, ed è lecito che si chiedano che cosa ritiene di avere sbagliato negli ultimi quattro anni.
Di certo il cambio di rotta non potrà essere sulla politica estera, dove il sostanziale appoggio a Israele – al netto del gioco tattico delle reprimende e delle minacce verso Benjamin Netanyahu – e il finanziamento a oltranza all’Ucraina non saranno messi in discussione. E sono proprio i punti su cui si scontrano le anime di un partito che fino a poco tempo fa faceva le barricate contro le guerre della destra in Iraq e Afghanistan, mentre ora guarda con sospetto gli accampamenti pro Pal nei campus.
Trump ha generato una modificazione genetica del partito repubblicano, ma anche nell’elettorato conservatore abbondano le perplessità. Quello che un tempo era il partito del libero mercato ha un candidato vicepresidente che sostiene il salario minimo e lo smantellamento di Big Tech con l’autorità dello stato. Evangelici e conservatori sociali si trovano con un leader che dopo aver nominato giudici della Corte suprema di fede conservatrice ora vacilla quando gli domandano cosa pensa del bando federale dell’aborto.
Fra i maggiori sponsor di Trump c’è Rfk Jr., il rampollo reietto della famiglia democratica più mitizzata della storia americana, che alterna crociate No-vax e dichiarazioni di sostegno a Netanyahu, mentre Tulsi Gabbard, ex eroina democratica votata all’isolazionismo in politica estera, lancia cappellini rossi ai comizi e castiga la corte neocon transitata a sinistra.
Dove si collochi in questo confuso guazzabuglio il proclamato spirito libertario di Elon Musk e dell’altra metà della Silicon Valley che vota a destra, e come questo possa convivere con la chiusura delle frontiere, la deportazione di 11 milioni di immigrati senza documenti e la belligerante politica protezionista verso la Cina sfugge anche ai politologi più creativi. Ma soprattutto sfugge agli elettori.
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