Il gruppo dei repubblicani alla Camera dei rappresentanti perderà il 19 aprile la maggioranza assoluta dei seggi, tra l’uscita del promettente deputato Mike Gallagher e i 21 che hanno annunciato di non volersi più ricandidare a novembre. Tra i motivi, il caos per la politica nazionale e la crescente trumpizzazione del partito, che porta alcuni membri a ripetere punti di vista vicini al Cremlino
Non c’è pace per il partito repubblicano Usa alla Camera. Non soltanto perché sembra sempre più lontano il momento in cui lo speaker Mike Johnson riuscirà a calendarizzare un voto per gli aiuti da destinare all’Ucraina e a Israele. La condotta militare di Tel Aviv è sempre meno digeribile dalla quasi totalità dei democratici, ma anche nel gruppo di opposizione alla presidenza di Joe Biden regna il caos e sembra non esserci fine al disordine iniziato lo scorso ottobre con la sfiducia dell’allora speaker Kevin McCarthy, voluta da un manipolo di ipertrumpiani spalleggiati dai democratici.
Dal prossimo 19 aprile, infatti, i repubblicani perderanno anche la maggioranza assoluta nominale: il deputato Mike Gallagher del Wisconsin si dimetterà in quel giorno. Non è un politico a fine corsa, ma uno degli esponenti più promettenti dell’area conservatrice, con una forte expertise sulla Cina, tanto da renderlo il primo presidente della Commissione di controllo sulle attività del Partito Comunista cinese all’inizio di questo biennio congressuale.
Oggi se ne va, nonostante i tentativi fatti dal leader di maggioranza (e vice di Johnson) Steve Scalise nel convincerlo a fare marcia indietro. Anche perché il suo seggio rimarrebbe vuoto fino all’elezione del suo successore a novembre. Senza la maggioranza assoluta ciò vuol dire che i repubblicani non sono più in grado di far passare mozioni senza il sostegno di almeno un deputato dem. Condizione, questa, che in teoria può far scattare una mozione di sfiducia simile a quella che ha portato alla caduta di McCarthy.
Insomma, un’impasse alla mercé di esponenti estremisti come la ben nota Marjorie Taylor Greene, fedelissima dell’ex presidente Trump, che ha già annunciato che presenterà una nuova mozione per rimuovere Johnson. Idea che finora non ha raccolto adesioni di rilievo, dato che i dem sembrano essere più indulgenti nei confronti del “trumpista ben pettinato” Johnson, soprattutto adesso che sembra sfumata l’ipotesi di un impeachment politicamente motivato nei confronti del presidente Biden.
Questo immobilismo però ha creato un clima di sfiducia nel caucus repubblicano, con l’impressione diffusa che il Gop, comunque vadano le presidenziali, non riuscirà a mantenere la maggioranza. E così ben 21 esponenti politici hanno annunciato che non si ripresenteranno alle elezioni di novembre. Tra questi c’è anche Greg Pence, deputato dell’Indiana, fratello dell’ex vicepresidente Mike, che ha lamentato un’agenda “caotica” di queste settimane, totalmente alla mercé degli interessi spiccioli dei partiti.
A scavare un solco profondo nel partito c’è anche la posizione da adottare in politica estera: gli internazionalisti sono sempre di meno (il già citato Gallagher era uno di questi), mentre gli isolazionisti trumpiani sempre di più. Il colpevole? La propaganda russa.
A dare questo giudizio tranchant, stranamente, non è stato qualche commentatore progressista, ma il deputato repubblicano Michael McCaul, il presidente della commissione Affari esteri, che in un’intervista al sito Puck News ha detto che la propaganda del Cremlino «ha infettato una buona parte della base del mio partito». Ad aver fatto perdere la pazienza a lui e al suo collega Mike Turner, che presiede la commissione sui servizi segreti e ha dichiarato alla Cnn che «certi colleghi ripetono a pappagallo messaggi pro Russia, anche sui banchi del Congresso», è stata proprio Marjorie Taylor Greene.
Un esempio su tutti, uno status postato su X, l’ex Twitter, dove dice «che il 70 per cento degli americani è contro l’Ucraina nella Nato» e che vuole solo «la sicurezza del confine». In realtà, ciò che importa a Greene e ai suoi alleati è l’allineamento totale del gruppo ai desiderata di Donald Trump, quali che siano in quel giorno, anche in contraddizione con quelli di una settimana fa. E questo ovviamente non depone bene alla funzionalità del Congresso, la cui inefficienza, pur molto mitigata nel primo biennio di Biden, rimane un problema che si aggraverà nel prossimo futuro.
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