Il presidente Biden continua a cercare un modo per tirarsi fuori dalle secche del post-dibattito con Donald Trump, dove la figura catastrofica fatta dall’inquilino della Casa Bianca, che è apparso debole e senile rispetto a un Trump inaspettatamente vigoroso e tranquillo.

La sera successiva a Raleigh, in North Carolina, il presidente si è vigorosamente difeso in un comizio, affermando che «anche se non è più giovane come un tempo e non dibatte più bene come una volta», sa «dire la verità», mentre l’avversario mente. È questa la linea di difesa scelta: la malferma voce della verità contro le urla della menzogna.

Nelle ore successive è arrivato anche il sostegno di Barack Obama e domenica anche quello dell’influente deputato Jim Clyburn della South Carolina, che nel 2020 fu uno degli organizzatori di quella sorprendente vittoria avvenuta alle primarie di quello stato.

Il presidente nel fine settimana inoltre è stato attivo nel tentare strenuamente di convincere i grandi donatori del fatto che può ancora farcela e che non è necessario impazzire per trovare forsennatamente un rimpiazzo su cui far convergere, ragionevolmente, la maggioranza dei delegati del partito.

Secondo quanto riportato dal vicedirettore della campagna elettorale di Biden Rob Flaherty, dal momento del dibattito sono arrivati nelle casse dei dem 33 milioni di dollari, dei quali 26 da parte di piccoli donatori. Forse sono cifre sovrastimate, ma potrebbe esserci stata anche una sorta di “sveglia” per la base dem più che mai preoccupata da Trump.

Ad ogni modo, secondo le ultime rilevazioni il partito è spaccato a metà su questo: c’è chi vuol stringere i denti e conta sulla memoria a breve termine degli elettori e magari su un secondo dibattito il 10 settembre con opposti risultati.

Sono però tutte supposizioni. Quello che preme gli analisti è capire com’è maturata la decisione di ricandidarsi da parte del presidente. Un lungo retroscena pubblicato sul Washington Post fa capire quale sia stato il preciso momento: la vittoria nelle elezioni di midterm del 2022.

Lì Biden aveva consultato i familiari, a partire dalla moglie Jill, decidendo di lanciarsi nell’impresa, nonostante nel marzo 2020 dicesse di essere un ponte tra generazioni di leader. Invece ha preferito continuare in quella che ha definito varie volte una «presidenza trasformativa», anche se già nell’autunno 2022 si è preferito ignorare i segnali dell’elettorato: già allora il 56 per cento dei simpatizzanti avrebbe preferito un nuovo candidato per il 2024. E invece la stretta cerchia del presidente ha deciso di sigillare le primarie, non ammettendo dibattiti anche se c’era un candidato come il deputato Dean Phillips che, pur non avendo un gran carisma, era comunque un eletto dem che avrebbe meritato una giusta piattaforma per esporre le sue idee.

Il cerchio magico

Un’altra ricostruzione, stavolta di Axios, invece restituisce un presidente ostaggio di un “cerchio magico” di consiglieri, che lo tenevano protetto da altri membri minori dello staff e che cercavano in tutti i modi di evitargli di affaticarsi. Cosa che, a quanto pare, gli accadeva di frequente.

Nonostante la sua difesa strenua, la vicepresidente Kamala Harris è quella a cui si guarda per capire cosa possa succedere nelle prossime settimane. Perché sarebbe forse l’unica carta a disposizione dei dem nonostante la sua impopolarità che potrebbe evitare lo spettacolo di una convention fratturata e profondamente litigiosa come avvenuto nel 1968: alle presidenziali di quell’anno, infatti, avrebbe vinto di misura il repubblicano Richard Nixon.

Infine, c’è un elemento che spingerebbe Biden a rimanere ed è paradossale a una prima analisi: gli editoriali del New York Times e del New Yorker che gli chiedono di ritirarsi. Una mossa che in un certo senso rafforza il suo disprezzo per le elite intellettuali liberal che ha avuto per tutta la vita e che in un certo senso lo accomuna al suo avversario repubblicano.

Nella giornata di oggi poi è attesa una decisione cruciale da parte della Corte Suprema: quella sull’immunità presidenziale di Donald Trump. Secondo la difesa, infatti, Trump sarebbe stato coperto da una sorta di “scudo” dovuto alla carica che occupava, che di fatto lo rende non perseguibile per tutto quanto ha commesso nell’esercizio delle sue funzioni.

Una teoria che appare bislacca e che presumibilmente non potrà essere accettata nella sua interezza, ma la Corte Suprema a trazione conservatrice può riservare delle sorprese. Anche se stona un po’ con altre sentenze degli scorsi giorni, che vanno nella direzione di ridurre i poteri esecutivi del presidente e delle altre agenzie federali.

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