Un viaggio difficile e ad alta tensione diplomatica. In Libano ci sarà da raffreddare il fronte sud tra Hezbollah e Israele, mentre a Gerusalemme il ministro dovrà vedersela con la durezza delle posizioni di Netanyahu. A Ramallah si dovrà sostenere un governo senza Hamas ma con il suo consenso: è su questo tipo di operazioni all’apparenza impossibili che l’Italia può far valere i suoi vantaggi diplomatici
Domani e giovedì il ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio, Antonio Tajani, va in Libano ed Israele dove oltre a quelle israeliane deve incontrare anche le autorità palestinesi dell’Anp a Ramallah.
Per l’Italia si tratta di un viaggio molto delicato: nella crisi mediorientale il nostro paese è sempre più esposto, come si è visto con la decisione europea (su proposta italiana) di impegnarsi in una missione navale di difesa nel Mar Rosso con navi militari.
Francia, Italia, Germania e Belgio (si attende ancora la decisione della Spagna) hanno optato per la protezione del traffico commerciale verso il canale di Suez, differenziandosi dalle operazioni di attacco al suolo in Yemen di Stati Uniti e Regno Unito.
Le ragioni sono prudenziali: non si vuole partecipare ad iniziative che prefigurerebbero un allargamento del conflitto in corso ma solo garantire il libero passaggio.
Per l’Italia è una questione vitale: attraverso Suez passa una buona parte (qualcuno parla di qualcosa tra il 15 e il 20 per cento) delle nostre esportazioni verso l’Asia. È bene rammentare che il commercio internazionale si svolge per oltre il 90 per cento via mare.
Inoltre l’Italia possiede già una presenza nell’area: il contingente militare nel Libano sud che opera da anni con successo ed è apprezzato da tutti i protagonisti. Ma quella zona è anche in via di surriscaldamento e Tajani avrà molto da fare per trovare gli interlocutori giusti a Beirut, visto che il parlamento libanese non si è ancora accordato sul nome del prossimo presidente della repubblica e che le varie forze politiche libanesi sono ancora profondamente divise.
Il problema del Libano
Il partito filo-iraniano Hezbollah non ha la forza per imporre da solo la propria volontà ma è ormai un attore di cui non si può fare a meno, depositario di un reale potere di veto su ogni nomina.
Sarà utile per Tajani parlare anche con chi è vicino al partito sciita, in modo da abbassare la tensione nel Libano sud al fine di proteggere i nostri militari.
Israele occupa ancora alcune zone libanesi mentre Hezbollah provoca con continui lanci di missili e razzi oltre frontiera. Dal 7 ottobre gli attacchi sono stati intensificati per tenere occupata una parte consistente dell’esercito israeliano, evitando una concentrazione di tutte le forze nella Striscia. Un modo per sostenere indirettamente Hamas.
In Libano il problema è duplice: aiutare il paese ad eleggere un nuovo presidente (tentativo in cui la Francia ha finora fallito) e contemporaneamente evitare che si lasci coinvolgere nella guerra di Gaza.
In Israele il compito di Tajani è ancora più complesso malgrado sia stato uno fra i primi alti rappresentati dell’Ue a recarsi nella zona del pogrom del 7 ottobre, giungendo fino a pochi metri dalla linea di demarcazione con la striscia e visitando le distruzioni.
Ci sarà da affrontare una posizione estremamente rigida delle autorità del governo Netanyahu che anche recentemente si sono espresse contro l’istituzione dello stato palestinese.
Come molti suoi omologhi europei, Tajani ha più volte ripetuto che la «soluzione dei due stati è la sola via percorribile» ma è consapevole che in Israele sono in pochi a pensarla così. Il discorso prevalente è più o meno: «Se con un mezzo stato hanno perpetrato atrocità del genere, cosa faranno con uno stato intero?».
La paura e il sospetto sono la cifra delle attuali relazioni tra israeliani e palestinesi. Anche Hamas ha dichiarato di essere contro i due stati: vuole tutta la terra “dal fiume al mare”. Paradossalmente è la medesima cosa che dicono gli ultras dell’estrema destra israeliana: “dal Giordano al mare”.
È ovvio che si tratta di posizioni inaccettabili se si vuole ricostruire fiducia e convivenza. L’unilateralismo israeliano di questi ultimi dieci anni è stato la sua forza ma anche una condanna che rende difficile ora tornare sui propri passi. Di conseguenza sarà un processo molto lungo e doloroso.
Il vantaggio italiano
Nell’entourage del consiglio europeo si spera che non venga turbato da accelerazioni spregiudicate come quella che sta attraendo il premier spagnolo Pedro Sánchez: riconoscere ufficialmente de iure uno stato palestinese che non c’è.
A Ramallah il nostro ministro dovrà verificare se la volontà palestinese di costituire un nuovo governo unitario tra le varie fazioni sia effettiva e se implichi dei ministri indipendenti (in gergo locale ciò che noi chiameremmo tecnici).
Si tratta infatti di fare un governo senza Hamas ma con il consenso di Hamas: una notevole capriola politica affinché tale compagine possa risultare accettabile. Come si vede sono tutti incontri difficili che metteranno la nostra diplomazia alla prova.
L’Italia ha il vantaggio di essere stata in questi anni limpida sui principi (l’esistenza dello Stato di Israele e la sua sicurezza) senza sposare le tesi suprematiste dell’estrema destra israeliana e senza riconoscere la legittimità di Hamas come rappresentante palestinese.
L’Italia riconosce nel 7 ottobre un vero e proprio pogrom ma è anche contraria a una rappresaglia senza fine a Gaza e preme per il cessate il fuoco. Si potrebbe dire che il nostro paese è stato poco incisivo in questi anni ma si tratta di una responsabilità ben condivisa in Europa.
Ora bisogna vedere quale possa essere l’uscita da quello che si presenta come un terribile cul de sac. L’idea da far passare presso i nostri interlocutori è che il conflitto in corso è senza piani e senza prospettive politiche: di conseguenza andrebbe fermato per tornare a lavorare di immaginazione diplomatica. La politica ha delle soluzioni che le armi non possono offrire.
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