L’Armenia è una ferita rimasta aperta da più di un secolo e che ora la guerra di Gaza ricopre e nasconde. Così non si rimargina, tornando a interrogare l’Europa e le nostre coscienze. Ai tempi della prima guerra mondiale il Metz Yeghern, la grande strage degli armeni e degli altri cristiani dell’impero ottomano, venne coperto dal conflitto stesso.
Com’è noto ogni guerra può nascondere le più terribili nefandezze, com’è accaduto con la Shoah durante il secondo conflitto mondiale. Anni prima gli armeni avevano subito orribili massacri ma la leadership ultra-nazionalista giovane-turca scelse per qualcosa di più radicale: l’eliminazione dell’intero popolo, accusato di essere una quinta colonna della Russia zarista e delle potenze europee con cui erano in guerra. Per gli armeni dell’impero si scatenò l’inferno; i superstiti furono spinti nel deserto verso la Siria e oltre.
Per tanto tempo le potenze europee avevano oscillato tra la difesa dei cristiani d’oriente – tra cui spiccavano gli armeni – e i propri interessi, spesso contrapposti. Nel 1915 non ci fu nessun intervento specifico per salvare gli armeni, né alle conferenze di pace in cui si riordinò il mondo, si decise per la creazione di una grande Armenia come speravano i sopravvissuti.
La nascita della Turchia moderna quasi cancellò del tutto quella vicenda, tenuta viva soprattutto da chi era scampato e dalla diaspora. L’Armenia sovietica rappresentava solo in parte il sogno del popolo: sistemazione complessa delle frontiere etnico-religiose del Caucaso, alla quale da Mosca misero mano in molti, Stalin incluso.
La fragilità armena
Durante la guerra fredda la polemica attorno al termine genocidio con cui alcuni definivano gli eventi del 1915, non venne mai meno senza trovare un consenso generale soprattutto a causa dell’opposizione turca. In anni più recenti la storia è sorprendentemente riemersa anche in Turchia, con la scoperta dei cripto-armeni, i discendenti degli scampati e convertiti all’islam. Fu un colpo per la società turca che ha strappato, forse definitivamente, il velo dell’oblio e della negazione. Si sperò in una riconciliazione, voluta inizialmente anche da Erdogan. Ma poi la politica degli interessi riprese il sopravvento.
Nel Caucaso turbolento Armenia e Azerbaigian – indipendenti dalla fine dell’Urss – si sono sfidati per quasi trent’anni, con alterne vicende e sotto lo sguardo calcolatore dei vicini: Russia, Iran, Turchia e occidente. Molto di ciò che è accaduto nell’alternanza politica interna di questi anni a Erevan è dipeso dagli equilibri tra diaspora (legata prevalentemente agli Usa), influenza russa, spinta turca e tornaconti iraniani.
Per gli armeni il vincolo esterno ha significato un’endemica fragilità politica, un destino che li accomuna a tanti popoli dell’ex Urss. Anche a Baku tali impulsi si sono fatti sentire ma in senso filo-turco: un legame sempre più forte con gli obiettivi del neo-ottomanesimo con cui Erdogan ha voluto segnare il suo secondo decennio di potere. Un intrico del quale oggi l’Armenia rimane vittima, anche se per quasi trent’anni è parsa al contrario favorita.
Il nodo geopolitico
La questione del Nagorno-Karabakh non è nuova: esisteva già in epoca sovietica ma era compressa dagli interessi strategici della superpotenza. Un sicuro game changer è stata la connessione del gas azero alle reti internazionali di distribuzione dell’energia: un fatto a cui anche l’Italia non è estranea a causa del gasdotto Tap che arriva in Puglia. Si polemizzò molto sugli ulivi da spostare a San Foca ma non si tenne conto del cambiamento geopolitico che avrebbe prodotto.
Esclusa dagli accordi energetici EastMed (gasdotto tra Israele, Cipro, Grecia e Italia), Ankara non si era fatta trovare impreparata nel Caucaso, stringendo un’alleanza militare con gli azeri. Il colpo di grazia alle speranze armene è venuto successivamente dalla guerra di Siria e poi da quella in Ucraina: progressivamente Russia e Turchia si sono accordate per una peculiare forma di “collaborazione competitiva”, nella quale il Caucaso è passato di mano, almeno provvisoriamente.
Gli armeni si sono trovati isolati e Baku ne ha approfittato: dopo essere stato sconfitto nel 1994, l’Azerbaigian ha potuto ricominciare la guerra nel 2020, armato coi droni turchi, portandola a termine in queste settimane con la riconquista del Nagorno-Karabakh. Ridotta all’angolo, Erevan sta di nuovo cambiando protettore, puntando sugli americani che tuttavia hanno il difetto di essere lontani.
Da un punto di vista geopolitico è difficile prevedere cosa accadrà: nel Caucaso i giri di walzer delle alleanze sono sempre possibili e resta da vedere cosa farà Teheran.
Tuttavia non si può eliminare la sensazione davvero sgradevole che l’ennesima cacciata degli armeni da una terra in cui sono sempre vissuti, avvenga da parte di forze sostenute una volta ancora dai turchi. È vero che l’Azerbaigian è uno stato laico che soltanto una certa propaganda vorrebbe presentare come legato all’islamismo di stampo turco.
C’è poi la retorica dell’alleanza pan-turca ma è sentita più ad Ankara che a Baku, mentre le relazioni di quest’ultima con l’Europa sono ottime. E’ proprio tale aspetto che lascia una domanda aperta: stretta tra poteri ben più grandi, l’Armenia sarà ancora una volta sacrificata all’abbandono e alla dimenticanza?
C’è sicuramente una responsabilità diretta dei protagonisti: dopo la guerra del 1994 si doveva certamente negoziare una pace definitiva e anche Erevan su questo ha mancato di saggezza politica e di duttilità. Ma oggi la ferita si è riaperta: davanti alle tristi immagini dell’esodo degli armeni e dei simboli cristiani distrutti o saccheggiati, non possiamo che domandarci quale sia stata e quale debba essere la nostra solidarietà.
Alle Nazioni unite il ministro Antonio Tajani ha offerto la mediazione italiana; l’Europa si è fatta avanti: sarebbe stato più facile e assennato negoziare prima di quest’ultima fase, ma è comunque bene farlo ora per non dover attendere una prossima guerra, magari frutto di un ennesimo rivolgimento strategico.
© Riproduzione riservata