Nel corso dell’ultimo decennio il Sahel è divenuto uno dei più importanti teatri, in Africa e nel mondo, in cui stanno andando in scena le intrecciate dinamiche della jihad globale e della guerra globale al terrore. A seguito delle sconfitte subite in Siria e Iraq, le principali franchise del jihadismo globale, al-Qaeda e Stato islamico, hanno in effetti sperimentato una ricollocazione strategica della loro azione sul continente africano, che ha portato alla nascita di gruppi armati che reclamano la loro appartenenza a una delle due espressioni della galassia jihadista in Libia, in Mali e nei paesi limitrofi, in Nigeria e nella regione del Lago Ciad, in Somalia e nell’area del Corno, ma anche nella Repubblica Democratica del Congo e in Mozambico.

In un continente divenuto nuova frontiera della “guerra santa” che la jihad globale starebbe conducendo contro apostati e forze dell’imperialismo occidentale, il Sahel occuperebbe il ruolo di chiave di volta all’interno di un “arco di crisi”, che attraversa e salda l’intera Africa in un unico e generalizzato conflitto. Regione disastrata se ce n’è una, secondo questa narrazione in Sahel l’estrema povertà delle popolazioni, i vistosi limiti di capacità e legittimità degli stati locali, e le perduranti tensioni etniche e religiose avrebbero finito col fornire le condizioni ideali per lo sviluppo e il successo di un’insorgenza a trazione jihadista pronta ormai a travolgere anche i paesi costieri dell’Africa occidentale.  

L’immaginario apocalittico attualmente invalso, che dipinge il “Sahelistan” come un territorio intrinsecamente esposto a violenza, instabilità, istinti tribali e pulsioni estremiste, si trova alla base delle risposte securitarie che attori internazionali e regimi locali hanno elaborato nel corso degli ultimi dieci anni, e in particolare a seguito del conflitto iniziato in Mali nel 2012, vero detonatore della crisi che ha successivamente investito anche i vicini Niger e Burkina Faso. In un gioco di specchi in cui i due contendenti finiscono per sposare e legittimare le narrazioni proposte dal proprio nemico, sia gli attori del controterrorismo che i gruppi jihadisti si raccontano dunque come impegnati in uno scontro armato e ideologico dalla portata globale, di cui il Sahel rappresenta l’ennesimo capitolo. Ma quanto c’è effettivamente di “santo” e di globale, nella lotta che le numerose sigle e fazioni raggruppate sotto le bandiere di al-Qaeda e Stato islamico stanno conducendo in Sahel?

Tra globale e locale

Non è possibile dare una risposta univoca a una domanda che intercetta uno dei principali dibattiti emersi intorno allo studio delle cause e delle modalità della proliferazione del jihadismo in Sahel.

I portatori della visione “globale” sostengono che i gruppi jihadisti in Sahel – come altrove – rappresentano ramificazioni di un’insurrezione islamica globale da cui promanano per linea diretta. A sostegno di questa interpretazione viene solitamente presentato il caso di Aqmi (al Qaeda nel Maghreb islamico), il gruppo jihadista che per primo si è installato nel nord del Mali a inizio millennio e che ha rappresentato il nucleo storico a partire dal quale si sono successivamente sviluppate le diverse sigle insorgenti che operano oggi nell’area. Le origini di Aqmi sono infatti da situarsi in Algeria, paese attraversato da una feroce guerra civile che aveva opposto regime militare e gruppi armati di ispirazione islamista nel corso di tutti gli anni Novanta.

A seguito della definitiva sconfitta subita dal fronte jihadista nei primi anni Duemila, un gruppo di fuoriusciti, tra cui anche diversi veterani dell’Afghanistan, diede vita al Gspc (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, predecessore di Aqmi), la cui presenza nel nord del Mali è attestata almeno a partire dal 2003. Se l’effettivo filo che unisce i combattenti algerini alle insorgenze jihadiste contemporanee fornisce un forte elemento a supporto della tesi “globalista” del jihadismo saheliano, un secondo fattore solitamente sottolineato riguarda la rapida propagazione di cui le dottrine salafite hanno goduto nella regione.

È stato documentato, ad esempio, come la propaganda religiosa (dawa) di gruppi salafiti radicali abbia avuto un ruolo decisivo nel determinare la conversione all’islamismo militante ed eversivo di leader autoctoni come Iyad ag Ghali e Muhammad Yusuf, che sarebbero in seguito divenuti i fondatori dei principali gruppi jihadisti saheliani. Non vi è consenso se attribuire questa evoluzione dottrinale a una proiezione egemonica che irradia nel Sahel provenendo dall’estero, e principalmente dal nord Africa e dal Golfo, oppure a una dinamica endogena dell’islam saheliano, che sarebbe artificioso considerare estraneo alle traiettorie dell’islam globale. Quel che è indubbio è che l’affermazione del salafismo sta alterando in profondità la struttura confessionale dei paesi saheliani, in direzione di una crescente commistione fra sfera religiosa e politica.

All’estremo opposto del dibattito si posizionano quegli osservatori che insistono sulla natura prettamente locale delle insorgenze saheliane, che utilizzerebbero tanto la – lasca e poco più che simbolica – affiliazione alla jihad globale, quanto il richiamo alle dottrine fondamentaliste dell’Islam, come un potente mezzo di mobilitazione, una “cornice di senso” in grado di legittimare lotte le cui cause e trasformazioni sono da comprendere essenzialmente attraverso una lente politica locale. Se in effetti il nucleo iniziale di tali insorgenze all’inizio del millennio è stato costituito da combattenti esterni alla regione, nel corso dei due decenni successivi si è assistito a un processo di ibridizzazione e di autonomizzazione del movimento jihadista in Sahel che ne ha profondamente trasformato leadership e organizzazione.

Distaccandosi in maniera sempre più evidente dalla leadership algerina di Aqmi asserragliata in Cabilia, le cellule jihadiste presenti nel Sahara-Sahel hanno deliberatamente perseguito una strategia di compenetrazione delle locali reti tribali e commerciali, che ha indiscutibilmente contribuito al radicamento e alla resilienza del jihadismo in Sahel. Intercettando e alimentando le preesistenti linee di conflitto che attraversano le società saheliane, questi gruppi sono riusciti a porsi come liberatori e garanti della sicurezza di comunità, la cui condizione è stata alterata in maniera drammatica da dieci anni di violenza armata e repressione operata da regimi, a loro volta dediti a sovrapporre la lotta al terrorismo con il tentativo di eliminare le forme di opposizione interna percepite come più “pericolose” per la propria sopravvivenza.

In tal senso andrebbe letta anche l’apertura a negoziati coi governi locali, ribadita a più riprese dalla leadership di Jnim (Jama'at Nasr al-Islam wal muslimin), la coalizione qaedista che controlla ormai ampie porzioni dei territori di Mali e Burkina Faso. La stessa connessione tra diffusione del salafismo e successo dei movimenti jihadisti è stata rimessa in discussione da numerose ricerche, che hanno dimostrato l’assenza di evidenti e dirette connessioni causali tra i due fenomeni.

L’Islam in Sahel ha in effetti storicamente rappresentato un terreno di scontro e uno strumento tanto di controllo che di resistenza, mobilitato a seconda dei momenti da gruppi sociali e di potere alternativi. Se nella sua propaganda la Katiba Macina – gruppo legato allo Jnim – cerca ad esempio di presentare la propria lotta come in continuità con le esperienze dei regni teocratici saheliani creati a fine Ottocento dalla jihad Peul, i regimi locali possono con altrettanta “legittimità” fare appello alla natura sincretica e tollerante dell’Islam locale.

Politiche di controterrorismo

La vitalità di questo dibattitto suggerisce come nella complessità della crisi saheliana, sarebbe necessario evitare letture manichee e riduzioniste delle dinamiche di conflitto in corso, che intercettano e si alimentano tanto di dinamiche globali quanto di istanze e lotte ancorate nella realtà politica, economica e sociale della regione. D’altro canto, ancora prima di chiedersi quali siano le origini e gli obiettivi di lungo periodo perseguiti dalla leadership dei movimenti jihadisti in Sahel, la domanda che sarebbe forse più opportuno porsi riguarda il perché del successo di questi gruppi.

In controtendenza rispetto alla narrazione internazionale che considera la debolezza delle istituzioni statali come uno dei principali motori causali dietro lo svilupparsi di insorgenze jihadiste in Africa e non solo, esiste infatti in accademia un certo consenso rispetto al fatto che non sia la fragilità, bensì la “ferocia” degli stati locali a rappresentare uno dei principali fattori che ha contribuito alla diffusione delle insorgenze jihadiste nella regione.

Partner privilegiati di un sistema di controterrorismo internazionale proteso a privilegiare risposte essenzialmente militari e securitarie alla crisi saheliana, nel corso dell’ultimo decennio regimi e forze di sicurezza locali hanno approfittato della cornice offerta dalla guerra globale al terrore per reprimere il dissenso interno e compiere abusi contro quelle comunità che più sfuggivano al controllo del governo centrale. In una sorta di drammatica profezia auto-avverante, le politiche di controterrorismo sviluppate nell’ultimo decennio hanno così finito con il costituire probabilmente il singolo elemento che ha maggiormente contribuito ad alimentare e peggiorare la crisi del Sahel.

In un momento in cui l’intensità della violenza armata non sembra ridursi in Sahel, e sempre più segnali sembrano suggerire che la crisi possa espandersi verso altri paesi al di là dei confini del Sahel centrale, sono dunque prima di tutto le strategie e le iniziative di controterrorismo fino a oggi seguite a finire sotto accusa, pretendendo un profondo ripensamento.


Questo articolo si basa su una rielaborazione dei capitoli “Da Bono Vox al «Sahelistan»: la faglia saheliana e le figure dell’eccezione nella geografia politica africana. Prospettive teoriche e metodologiche,” e “La crisi che non c’era: analisi dei fattori di radicalizzazione e mobilitazione jihadista in Sahel” contenuti nel volume edito da Edoardo Baldaro e Luca Raineri “Jihad in Africa. Terrorismo e Controterrorismo in Sahel”, Il Mulino, 2022.

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