Lavori forzati, sorveglianza strettissima, torture, la minoranza musulmana prova a liberarsi dall’oppressione di Pechino e sogna l’indipendenza. Ma ora anche la Turchia, che per anni li ha difesi e ospitati, non è più sicura
- Abdurrahim Paraq è stato arrestato nel 1997 per aver organizzato un evento letterario su un poeta uiguro musulmano. Anche Abdurrahim è un uiguro e anche lui è un poeta, fa parte della minoranza turcofona musulmana che da decenni è perseguitata dall’apparato di sicurezza di Pechino.
- Dal 2014, è finalmente al sicuro in Turchia. Erdogan è considerato il loro salvatore, e oggi gli uiguri residenti in Turchia sono circa 50mila.
- La Cina ha fornito alle autorità turche un dossier sul suo caso. Per questo è stato in carcere tre mesi nel 2019. Per tutti gli uiguri l’accusa di Pechino, in genere, è sempre la stessa: essere terroristi.
Abdurrahim Paraq è nato nel distretto di Peyzivat situato nella regione autonoma dello Xinjiang, in Cina. È stato arrestato nel 1997 per aver organizzato un evento letterario su un poeta uiguro musulmano. Anche Abdurrahim è un uiguro e anche lui è un poeta, fa parte della minoranza turcofona musulmana che da decenni è perseguitata dall’apparato di sicurezza di Pechino. Ha pagato a caro prezzo l’organizzazione di quell’evento. «Mi hanno arrestato, sono stato interrogato e ho subito anche diverse torture» racconta. «Non ho avuto diritto a un processo, non mi sono potuto difendere con nessuna azione legale, mi hanno fatto firmare un foglio in cui accettavo crimini e calunnie che non ho mai commesso» dice.
È stato portato nel carcere del distretto di Kashgar e lì è stato costretto ai lavori forzati insieme ad altri duemila prigionieri politici uiguri. «Lavoravo dalle tredici alle sedici ore al giorno in fabbriche di mattoni e nella rimozione delle pietre, l’ho fatto durante tutti gli anni di prigionia». Le botte e gli insulti da parte dei poliziotti cinesi erano all’ordine del giorno. «Ho visto amici essere picchiati e uccisi davanti ai miei occhi, per me è un grande miracolo essere sopravvissuto tre anni senza morire». Quei crimini sono rimasti impuniti.
«Chi potrebbe aver visto cosa stava accadendo? Quali sarebbero stati i testimoni?» afferma con sgomento e rabbia. Dopo essere stato rilasciato ha deciso di sposarsi e ha avuto dei figli. Ma nel 2012 la sua vita era ancora una volta in pericolo. Così ha deciso di scappare in Thailandia insieme ad altri uiguri. Da lì è arrivato in Malesia e poi, dal 2014, è finalmente al sicuro in Turchia.
Il salvatore
Erdogan è considerato il loro salvatore, in precedenza aveva attaccato la Cina accusandola di perseguitare gli uiguri soltanto per il loro credo, per essere musulmani. Oggi gli uiguri residenti in Turchia sono circa 50mila. Hanno aperto piccoli negozi e la maggior parte di loro fa umili lavori.
Abdurrahim è stato impiegato per un po’ in un canale televisivo, ma anche a Istanbul la sua vita non è semplice. Ha perso i contatti con la sua famiglia. Non sa dove siano finiti i suoi genitori, sua moglie e i bambini. «Nel 2015 mi hanno detto che mia moglie Buhelçem Memet è stata arrestata dalla polizia cinese e incarcerata per sette anni. Fino a ora, non ho nemmeno saputo se qualcuno dei miei famigliari è vivo. Ho cercato di denunciare la situazione e hanno provato a zittirmi, ma non mi fermerò finché non salverò la mia famiglia». La Cina ha fornito alle autorità turche un dossier sul suo caso. Per questo è stato in carcere tre mesi nel 2019. Per tutti gli uiguri l’accusa di Pechino, in genere, è sempre la stessa: essere terroristi.
L’accordo di estradizione
«La Turchia non ha taciuto contro il genocidio cinese» dice Abdurrahim, «non è come gli altri stati arabi che si sono dimenticati della fratellanza, della religiosità e pensano ai loro interessi». Oggi, però, il poeta uiguro non si sente più al sicuro come prima, la situazione sta cambiando rapidamente: «Sono molto ansioso, non so quando verrà la polizia a prendermi, non so cosa fare. Ecco perché mi sono iscritto all’università di Erciyes, in modo che potesse essere utile per la mia sicurezza».
A fine dicembre la Cina ha ratificato l’accordo di estradizione con la Turchia siglato nel 2017, quando il primo ministro Erdogan era andato a Pechino per un incontro sulla nuova Via della Seta, l’ambizioso progetto di Xi Jinping che punta a migliorare i collegamenti commerciali con l’Africa e l’Europa. Una delle nuove rotte commerciali passa proprio per la Turchia, un regalo difficile da rifiutare per il governo di Erdogan. La paura è che siano i rapporti economici tra i due paesi a spostare l’ago della bilancia sul tema della repressione uigura. Fino a ora Ankara ha sempre cercato di ritardare la ratifica del trattato vista la forte opposizione all’interno del parlamento, ma la Cina sta spingendo affinché avvenga il prima possibile. Xi Jinping tiene sotto ricatto economico, e ora anche sanitario dato che la Turchia ha acquistato il vaccino cinese della SinoVac, il primo ministro Erdogan.
Nello Xinjiang vivono oltre venti milioni di persone, di cui il 45 per cento sono uiguri. Una minoranza che fa paura al governo centrale cinese che teme una possibile secessione dell’area. Per sopprimere ogni istinto d’indipendenza la Cina sta portando avanti, con la scusa di contrastare il terrorismo, un piano disumano che limita fortemente le libertà fondamentali del popolo uiguro. La situazione è peggiorata a partire dal 2014 quando Pechino ha implementato la sua strategia repressiva su tre direttrici diverse: la creazione di campi di rieducazione e di lavoro forzato, l’installazione di un sofisticato sistema di sorveglianza in tutta la regione e la riduzione sistemica delle nascite.
Centri di rieducazione
Secondo un testo approvato dal parlamento europeo lo scorso dicembre sono più di un milione le persone che sono o sono state detenute nei centri di “rieducazione politica”. Dal 2017 a oggi sono almeno 441 i centri che sono stati costruiti o ampliati per contenere l’alto numero di persone. Il governo cinese ha sempre negato l’esistenza di questi campi fino a quando sono stati legalizzati due anni fa come istituti di scolarizzazione. Qui vengono impartite lezioni di lingua cinese, diffusa l’ideologia del partito e demonizzato il culto dell’islam, il tutto attraverso un trattamento degradante e disumano.
Vengono insegnate alcune competenze basilari di lavoro e poi alcuni dei detenuti sono mandati a lavorare nelle fabbriche. L’obiettivo è di fare un “lavaggio del cervello” ai prigionieri di questi centri, con lo scopo di estirparne le idee estremiste e le pulsioni separatiste. All’indottrinamento nei campi il governo cinese affianca una campagna di distruzione di moschee e luoghi di culto, bandendo ogni tipo di evento, anche quelli letterari, che abbia un minimo richiamo all’islam.
Sempre secondo la relazione del parlamento europeo, gli uiguri sono impiegati nei settori dell’abbigliamento (soprattutto nella lavorazione del cotone), della tecnologia e dell’automobile. Fino a ora sono state individuate almeno 27 fabbriche in nove province cinesi che impiegano oltre 80mila lavoratori provenienti dallo Xinjiang. Queste fabbriche riforniscono circa 82 marchi internazionali, compresi alcuni europei.
Dopo anni di immobilismo alcuni paesi hanno iniziato ad adottare politiche economiche di contrasto per tutelare i diritti degli uiguri. L’Inghilterra, ad esempio, ha annunciato che introdurrà nuove regole per vietare l’importazione di merci sospettate di essere prodotte tramite il lavoro forzato. Abdurrahim ha conosciuto una donna finita a lavorare in una di queste aziende. «Nel luglio del 2020 ho parlato brevemente, tramite Wechat, con una ragazza uigura che si trovava in un campo di lavoro» racconta. «Mi ha detto che è stata portata nella città di Turfan, a più di mille chilometri di distanza dalla sua terra natale, e lì lavorava per un’azienda cinese». È riuscito a ottenere queste poche informazioni prima di perdere la comunicazione.
Come se non bastasse, le autorità cinesi hanno implementato un programma ufficiale per controllare le nascite, con l’obiettivo finale di ridurre il tasso di natalità tra gli uiguri attraverso aborti forzati, sterilizzazioni e l’installazione di dispositivi intrauterini.
Controllo delle nascite
Soltanto nel 2018 circa l’80 per cento di questi dispositivi sono stati installati nella regione dello Xinjiang. Una donna uigura intervistata dalla Bbc ha dichiarato che durante la sua permanenza in un campo di rieducazione era costretta a ingerire delle pillole che gli somministravano quotidianamente, senza nemmeno sapere cosa fossero. Anche i bambini devono fare i conti con la repressione da parte del governo cinese: vengono mandati in orfanotrofi gestiti dallo stato anche se solo uno dei due genitori è detenuto nei campi di internamento. A fine 2019 oltre 880mila bambini uiguri erano finiti in questi centri.
L’ossessione del controllo coinvolge ogni aspetto della vita di chi vive nello Xinjiang, sin dalla nascita le persone sono sorvegliate quotidianamente attraverso il riconoscimento facciale, il controllo intrusivo nei telefoni cellulari e il trattamento illegale dei dati personali. Tra le aziende che forniscono strumenti tecnologici al governo di Pechino c’è anche la Hikvision, produttore di sistemi di videosorveglianza, tra i più grandi fornitori al mondo. Dei prodotti della Hikvision si sono forniti, negli anni, sia il parlamento sia la Commissione europea negli anni. Mentre la presidenza di Donald Trump ha inserito l’azienda nella lista nera delle imprese che subiscono limiti alle esportazioni verso gli Stati Uniti.
La situazione è drammatica. Secondo Abdurrahim l’unica soluzione per mantenere vivi gli uiguri, le loro tradizioni e i loro costumi è l’autodeterminazione. «L’unica cosa che voglio è che il Turkestan orientale sia libero e indipendente, nessun’altra soluzione può salvare gli uiguri da questo genocidio se non l’indipendenza» dice Abdurrahim che aggiunge: «Adesso non so che giorni mi aspetteranno qui, tutto quello che so è che se dovessi tornare in Cina, sarò torturato e ucciso».
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