In Nigeria, Kenya, Senegal i giovani si ribellano e attaccano le istituzioni. E’ in atto un cambiamento antropologico: i giovani africani si muovono in autonomia e decidono da soli. Si sentono traditi sia dalle loro élite che dall’Occidente. Chi potrà parlare con loro?
Cosa sta accadendo ai giovani in Africa e, soprattutto, perché?
In Nigeria in giovani contestano il governo eletto da poco più di un anno ma contestavano anche quello precedente. C’è un’insoddisfazione generale delle giovani generazioni nigeriane che ha come detonatori la violenza delle forze dell’ordine, la mancanza di lavoro o la percezione (molto forte ormai) della corruzione delle élites.
Anche in Kenya, paese dalla reputazione democratica e considerato stabile, i giovani sono per strada da mesi, protestando contro il carovita e la mancanza di opportunità. Sfidano apertamente il presidente eletto William Ruto e assaltano senza remore i palazzi del potere. In Senegal le contestazioni giovanili sono state talmente forti da riuscire a sospingere alla presidenza i loro idoli, come il presidente Bassirou Diomaye Faye e il premier Ousmane Sanko. Abbiamo visto giovani africani sostenere anche i ripetuti golpe nel Sahel, in Guinea o in Gabon. Ma nemmeno le giunte militari che ne sono emerse possono dormire sonni tranquilli. Dovunque i giovani africani sono in fermento. Il presidente nigeriano Bole Tinubu ha dichiarato: ”cari giovani: vi ho sentito forte e chiaro! Comprendo il vostro dolore e la frustrazione…”. È raro che un leader africano si esprima in questa maniera, a parte la solita retorica paternalistica dei giovani futuro della nazione… Le classi dirigenti africane hanno paura dei loro giovani e non da oggi. La differenza è che ora questi ultimi rappresentano la maggioranza assoluta e non sono più trattenuti dal rispetto per gli anziani e gli adulti. Lo chiamano “youthquake”, terremoto giovanile: la rivolta della generazione Z africana.
Incitamento a “riuscire”
Al di là delle immagini mutuate dall’Occidente, la gioventù africana è davvero completamente cambiata di questi due decenni.
È avvenuta una mutazione antropologica profonda: al posto della vecchia cultura solidale, tra i giovani – in specie urbanizzati – si è imposta una cultura competitiva e materialistica che ora si ritorce contro i propri maestri. Anche in Africa è crollato il noi e c’è stato l’avvento dell’io. La spinta a ricercare il proprio interesse individuale ad ogni costo è ormai molto forte: di conseguenza non si è più disposti più a sopportare né ad aspettare. Soprattutto non si è più disposti a credere agli adulti.
L’impulso ad emigrare va anche letto come una conseguenza di tale situazione, essendo sovente caduta ogni speranza nel futuro del proprio paese. C’è qui un paradosso: proprio mentre stanno perdendo la loro tradizionale autorità, gli adulti (pochi) pressano i giovani (tanti) perché facciano fortuna, perché riescano. L’incitamento al “riuscire” è molto forte.
Sui giovani si scarica così il peso e la “fretta” di carpire qualche briciola dello sviluppo globale, che pare offrire nuove opportunità. Troviamo l’anticipazione di tale peso nella nota lettera di Yaguine Koità e Fodé Tounkara, i due adolescenti guineani morti nel 1999 dentro il carrello dell’aereo della Sabena cercando di giungere in Europa. Sentendosi “maledetti” nella propria terra, i giovani africani – in genere più istruiti dei loro genitori – mettono in atto ogni possibile espediente per farcela. Yaguine e Fodé sono dei precursori di una fase nuova.
A leggere quelle commoventi righe si scorge ancora il rispetto: chiedono aiuto sommessamente, implorando e senza accusare. Ora non è più così: i giovani si sono stufati, biasimano e pretendono. La vita è violenta ed ogni cosa va conquistata in un ambiente ostile (sia a casa propria che altrui), in cui l’insicurezza rende tutto molto competitivo: ecco perché i giovani africani hanno imparato ad essere aggressivi e meno mansueti. Tale competitività può far calare il livello etico generale: tutto è messo in vendita, niente è gratuito.
I giovani sentono il doppio abbandono, quello delle loro elite e quello degli europei: ciò li spinge a reagire con veemenza. Nelle grandi città africane come in Nigeria o in Kenya, la vita assume i contorni di una lotta per la sopravvivenza.
Aggressività e pretesa
Il “si salvi chi può” e il “ci si salva da sé” rappresentano oggi una mentalità continuamente predicata. Alla cultura dell’impossibilità e dell’assistenza si va sostituendo un atteggiamento di aggressività e pretesa: nemmeno ai leader si crede più.
E’ questo il risultato del fallimento sociale della globalizzazione: se ha aumentato la ricchezza ha tuttavia infragilito il tessuto sociale, impoverito le reti sanitaria ed educativa pubbliche, lasciando il posto alla cultura della privatizzazione. Tutto si deve pagare e nulla è più gratuito.
La questione giovanile è la grande questione africana del presente e del futuro: la loro salvezza individuale si lega al rifiuto del passato (sia quello tradizionale che quelli coloniale e post-coloniale), al rigetto dei propri leader fallimentari e ora anche dello straniero. Mai come oggi i giovani africani si concepiscono soli, senza sogni, gettati confusamente nel mare della globalizzazione, pieno di opportunità (spesso fasulle) ma anche colmo di pericoli e ostacoli. Per questo rivendicando la loro unicità (autenticità) in maniera confusa: accusano i “vecchi” di averli traditi, non si fidano più di nessuno, talvolta si gettano nelle braccia dell’ultimo venuto illudendosi di aver trovato un amico. In definitiva decidono di fare da soli.
I veri protagonisti della globalizzazione mondiale sono questi giovani africani (sono un miliardo, a cui aggiungere i giovani degli altri continenti) dei quali gli adulti hanno paura: ovunque temono il loro numero e la loro devianza. In Africa giovani indipendenti e intraprendenti, pronti all’avventura, sono anche più soli dei loro coetanei di altrove. Vengono temuti, allontanati o messi alla prova dalla società che conta, ancora prevalentemente gerontocratica.
Sono giovani esclusi che chiedono di essere inclusi e protestano con forza. Le delusioni della decolonizzazione prima, la sofferenza dei piani di aggiustamento strutturale poi, l’impoverimento degli stati e infine il fallimento delle promesse della globalizzazione: tutto ciò ha provocato un disorientamento giovanile che si trasforma in rancore e violenza.
Al primo posto restano i destini individuali: svaniti i sogni del riscatto del mondo nero e dell’unità africana, tra questi giovani è diminuito, o si è secolarizzato, l’amore per la propria terra. Sanno che nella globalità spietata devono cavarsela da soli.
Fallimento democratico
Ecco il perché della loro rabbia: una collera contro lo stato e i “potenti” che, mentre mandano i propri figli nelle scuole all’estero, hanno trascurato le strutture scolastico-educative assieme a quelle sanitarie, ormai in stato di abbandono.
La fine del sistema pubblico in Africa e la sua privatizzazione è all’origine di ciò che sta avvenendo e delle proteste a cui assistiamo. Si tratta anche del fallimento della democrazia che spesso si è trasformata in crisi etniche o è stata inquinata da enormi brogli.
In Africa nessuno si fida più dei risultati elettorali e delle varie commissioni elettorali indipendenti. I partiti si sono rivelati delle macchine del consenso, pieni di interessi e sottomessi ad agende spesso oscure. La magistratura africana – salvo rare eccezioni – non ha svolto il suo ruolo rivelandosi poco indipendente e troppo legata al potere. Le organizzazioni della società civile sono state spesso contaminate da etnicismi o dalla corruzione, accusate (magari ingiustamente) di essere legate agli interessi dei finanziatori occidentali. L’aspetto più triste è che la chiesa cattolica, che pur aveva avuto un ruolo cruciale durante la democratizzazione degli anni 90 e 2000, oggi ha perso autorevolezza e non parla quasi più, intimidita dalla crescita esponenziale dei neo-evangelicali e pentecostali perlopiù connessi alla politica dei leader.
Per ciò che riguarda l’islam africano il destino è ancora peggiore: malgrado sia maggioritario nel continente, è stato investito dal fenomeno rigorista e jihadista che lo ha spezzato concretamente e traumatizzato moralmente. In tale contesto ci si deve chiedere a chi possono rivolgersi i giovani africani persi dentro il caos del loro continente, travolti da tutti questi fenomeni.
È questa è la grande domanda che riguarda tutti, anche perché dalla sua risposta dipende il futuro comune: chi parlerà a questo universo giovanile africano con parole convincenti, offrendo una prospettiva nuova e sincera?
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