L’Europa dovrebbe abbandonare lo schema bellico e attrezzarsi per un accordo globale sulla sicurezza che parta da un fatto: la Russia non si dissolverà nel nulla. Opporre nazionalismo a nazionalismo non porterà pace in Europa
C’è un equivoco quando si parla di pace e di pace giusta: difficile giungervi per mezzo della guerra. La guerra incastra in una logica binaria: bene/male, bianco/nero, vittoria/sconfitta, vero/falso. Accettare tale criterio offre alla soluzione militare uno spazio esagerato e costringe le parti a deteriorarsi moralmente e umanamente. Il vero rovello dovrebbe essere: esiste un altro modo per risolvere la contesa oltre quello di combattersi all’ultimo sangue senza prospettive se non la reciproca distruzione?
La guerra è un ingranaggio perverso che spinge anche chi ha ragione là dove non gradirebbe andare, cioè a usare gli stessi mezzi di chi sta nel torto. La guerra trascina chi è nel giusto sul terreno di chi ha commesso l’ingiustizia: nel combattersi i due sono resi simili. Ogni guerra ne prepara un’altra, quella della rivincita. C’è chi dice: visto che il colpevole è la Russia, battiamola (o riduciamone grandemente il potere) per tagliare il male alla radice. Altrimenti, si conclude, certamente ricomincerà.
Sembra razionale, ma si tratta di un ragionamento ideologico e non politico, né tanto meno storico. Identificare il male in un paese e nella sua stessa esistenza associa regime e popolo. In questo caso avvantaggia il regime russo, che può sostenere di combattere una battaglia esistenziale, unendo il proprio destino a quello del paese stesso. Sollecitare una sconfitta della Russia significa fare il gioco della sua attuale leadership fomentando il nazionalismo grande-russo.
Storicamente ci sarebbe molto da discutere sulla teoria della “Russia sempre aggressore dell’Europa”, ma qui interessa un’esposizione più pragmatica e immediatamente politica: come fare a fermare la guerra evitando che si ripeta o si riproduca altrove? I nazionalismi più virulenti si fondano su una narrazione vittimistica con la quale la dirigenza convince il proprio popolo. L’unica strada per uscire da tale trappola è quella politica che offre più soluzioni. Mentre il conflitto è binario, politica e diplomazia concedono molte più possibilità, sono più fluide, si direbbe oggi. Razionalmente non si può pensare di eliminare la Russia per vivere in pace in Europa: nel bene e nel male la Russia esiste e bisogna tenerne conto senza cullarsi in ingenue illusioni. L’idea di vincerla spezzandola in varie parti rappresenta un incubo geopolitico senza la certezza che ne risulti un mondo più sicuro, anzi.
La Russia non si dissolverà nel nulla. Davanti a tale pragmatica certezza l’Europa dovrebbe piuttosto attrezzarsi per un nuovo accordo globale sulla sicurezza e la pace in tutto il continente che tenga conto della Russia reale: quella che c’è e non quella che vorremmo. La trasformazione della Russia dipende dai russi. Il massimo che possa fare l’occidente è non favorire la narrazione sciovinistica dell’attuale regime. A meno di non pensare che i russi siano irredimibili in quanto popolo. Basta ricordare ciò che gli europei pensavano dei tedeschi per tutta la prima metà del secolo XX.
Poi la storia ha svoltato grazie a leader visionari: dobbiamo credere che sarà possibile anche con la Russia. Ogni ragionamento “punitivo” non è degno di una vera politica e conduce a risultati negativi (del tipo “trattato di Versailles”) che producono rancore e desiderio di rivalsa. Certamente ora Mosca si sta comportando secondo la logica del peggior nazionalismo: un impero che si definisce “ferito” e contrastato mentre in realtà sta gestendo una guerra coloniale.
Conosciamo bene tale meccanismo manipolatorio perché è stato più volte usato nella storia. Ma reagire con argomentazioni dello stesso tipo, opponendovi nazionalismi altrettanto virulenti, non porta alla soluzione. Lo shock tra nazionalismi conduce solo al disastro. Colpisce quanto tra i politici europei sia diffusa l’amnesia su tale semplice realtà storica. La generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale ha sofferto sperando che fosse l’ultima grande guerra e che in Europa non si costruissero più “nemici esistenziali”.
Oggi torna invece di moda tale idea, mediante una ricostruzione strumentale della storia. Ricompare la cultura del nemico, spingendo a considerare l’avversario come nemico assoluto, mortale, esistenziale appunto. Tale ragionamento è estremistico, irragionevole, illogico, non costruttivo, e alla fine suicida. Chi non lo condivide crede sia meglio provare seriamente a negoziare. L’esperienza delle guerre europee del passato testimonia che opporre nazionalismo (o imperialismo) a nazionalismo non serve a molto.
Tra l’altro molto dipende da quale punto si guarda la storia. Nel “Labirinto degli smarriti” Amine Maalouf relativizza le passioni spiegando che tutto deriva dalla latitudine in cui ti trovi: gli americani sono odiati in America Latina così come i russi lo sono in Europa orientale e i giapponesi in Asia. Meglio non cadere nella trappola dell’odio di ritorno: odio come risposta all’odio; odio giustificato da altro odio.
È un ingranaggio infinito che – in un’ingarbugliata ragnatela di vittimismi contrapposti – alla fine confonde sempre aggressore e aggredito.
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