Aleksej Navalny è soltanto l'ultima vittima politica del regime di Vladimir Putin. Se ci spostiamo dagli Urali verso ovest, troviamo diversi piccoli e grandi indizi di quanto sia sensato parlare di libertà come di un bene scarso
La libertà civile è un bene pericolosamente scarso in quest'epoca di confusione ideologica e di tolleranza, quando non di attrazione, per governi forti e leader plebiscitari.
Con le ovvie proporzioni, la scarsità accomuna regimi diversi e persino opposti. Il caso estremo è quello del dispotismo che l'Europa ospita come est, il regime che è solito eliminare fisicamente i suoi oppositori, in esilio o in prigione.
Più sofisticati sono i media e le informazioni, più violente diventano le forme di repressione, perché l'isolamento in carcere non funziona più. La politica si può fare dal carcere e non bastano alte mura, filo spinato e controlli postali per mettere a tacere un critico.
Nel mondo di Internet, non è facile reprimere semplicemente togliendo i diritti. È necessario eliminare il portatore stesso dei diritti se si vuole impedirgli di parlare.
In questi giorni ci viene in mente l'esecuzione di Giordano Bruno, avvenuta nel 1600 a Campo de' Fiori a Roma: portato al rogo dopo avergli strappato la lingua. La libertà costa. Come la vita.
Aleksej Navalny, l'ultima vittima politica del regime di Vladimir Putin, è stato trovato morto in carcere. Dal 2008 era un blogger e youtuber attivo contro la corruzione e le violazioni del voto, candidato a sindaco di Mosca e alla Duma, attivista liberaldemocratico e scrittore.
Il procuratore di Mosca ha commentato così la sua lotta per la libertà: «Con il pretesto di slogan liberali, queste organizzazioni sono impegnate a creare le condizioni per la destabilizzazione della situazione sociale e socio-politica» del paese.
Un estremista liberale, insomma. In effetti, per anni Putin ha insistentemente deriso le democrazie liberali come entità disfunzionali, prodotti dell'occidente, una retorica che ha fatto proseliti a destra ma anche a sinistra. Segno di un'epoca ideologicamente confusa.
Se ci spostiamo dagli Urali verso ovest, troviamo diversi piccoli e grandi indizi di quanto sia sensato parlare di libertà come di un bene scarso. Che inizia a costare per chi non china la testa. Nelle democrazie consolidate – in Europa nate come reazione al nazifascismo e poi al dominio sovietico, in America Latina ai regimi dittatoriali – le libertà civili sono indubbiamente sotto stress.
Sia per la crescita di movimenti e ideologie reazionarie, xenofobe e nazionaliste, sia per l'erosione, in alcuni paesi più di altri, del sistema istituzionale che ha cercato di sottrarre il godimento delle libertà al potere delle maggioranze.
Per rendere le libertà civili un bene di tutti, i fondatori delle democrazie hanno costruito molto abilmente un sistema istituzionale basato sulla divisione dei poteri, sull'indipendenza dei sistemi di controllo dalle maggioranze mobili, sull'antimonopolio dei media e sulle norme antitrust.
Un ordine complesso che si sta gradualmente semplificando, non solo all'interno degli stati ma anche nella stessa Unione europea. In Ungheria, abbiamo visto un'arrestata in attesa di giudizio, la cittadina italiana Ilaria Salis, portata in tribunale come se fosse già una detenuta: con catene e catenacci. Come in Alabama.
Nel paese di Cesare Beccaria (sperando che chi ci governa sappia chi era e cosa ha scritto), la reazione del governo a questa violazione dei diritti civili dei suoi cittadini è stata così blanda da far pensare che l'attenzione sia direttamente proporzionale alla vicinanza ideologica. I diritti come un bene che appartiene alla maggioranza, cioè un privilegio.
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