«Immaginate le conseguenze profonde per tutti noi se Donald Trump vincesse queste elezioni». Tra applausi e grida di sostegno sabato Michelle Obama ha introdotto Kamala Harris a Kalamazoo, in Michigan. L’ex first lady si espone raramente in pubblico, ancora meno per parlare di politica. A pochi giorni dalle elezioni presidenziali ha deciso di giocare un ruolo da protagonista in campagna elettorale e l’ha fatto con un discorso di quaranta minuti su uno dei grandi temi che accompagnano il voto: i diritti sessuali e riproduttivi.

Le sue parole sono un manifesto femminista sui diritti delle donne, la salute, l’aborto, senza dimenticare argomenti che di solito rimangono più nascosti come la menopausa. Non si è rivolta solo alle donne, ha parlato anche «agli uomini che ci amano».

Ha fatto un elenco di esempi molto crudi, prospettando che cosa potrebbe succedere se con la vittoria di Donald Trump il diritto all’aborto venisse ulteriormente limitato negli Stati Uniti: «La tua fidanzata potrebbe avere problemi con la giustizia se avesse bisogno di una pillola all’estero. Tua moglie o tua madre potrebbero andare incontro a un maggiore rischio di morte per cancro al collo dell’utero perché non hanno accesso a cure ginecologiche regolari. Tua figlia potrebbe essere quella troppo terrorizzata per chiamare il medico se sta sanguinando durante una gravidanza inaspettata. Tua nipote potrebbe essere quella che ha un aborto spontaneo nella sua vasca da bagno dopo che l’ospedale l’ha mandata via».

Michelle Obama ha incluso nel suo discorso anche le responsabilità e le conseguenze per la popolazione maschile e ha chiesto loro di non consegnare «le nostre vite nelle mani di politici – per lo più uomini – che non si preoccupano di quello che noi donne stiamo passando, che non capiscono appieno le implicazioni sanitarie che le loro politiche sbagliate avranno sulla nostra salute». E, avviandosi verso la conclusione, ha detto in tono quasi solenne che un voto per Trump è un voto contro le donne.

La mobilitazione della comunità Lgbt

«La vicepresidente Kamala Harris è stata per decenni campionessa nell’uguaglianza Lgbtq+», ha scritto la Human Rights Campaign (Hrc), la più grande associazione della comunità Lgbt degli Stati Uniti, in una lettera di fine luglio firmata da oltre 1.100 persone. «La comunità sta lanciando un messaggio forte e chiaro: siamo uniti nel sostegno dell’esperta, tenace e pro-uguaglianza vicepresidente Kamala Harris e farà tutto il necessario per sconfiggere Donald Trump e JD Vance», aveva detto Kelley Robinson, presidente della Human Rights Campaign, pochi giorni dopo che la candidatura di Harris era diventata ufficiale.

I motivi per cui la comunità si è schierata con la candidata democratica si spiegano guardando la storia di Kamala Harris, che fin dai primi anni Duemila ha sostenuto i diritti delle persone Lgbt. Quando era procuratrice distrettuale di San Francisco ha celebrato alcuni dei primi matrimoni tra persone dello stesso sesso e ha istituito un’unità per contrastare i crimini d’odio. Poi, quando è diventata procuratrice generale della California nel 2010, si è opposta alla Proposition 8, cioè l’emendamento costituzionale che vietava alle persone dello stesso sesso di sposarsi, e spesso si è schierata contro la violenza nei confronti delle donne trans* nere.

«Kamala Harris ha cambiato da sola il corso della storia Lgbtq», aveva scritto Advocate, un giornale specializzato in notizie della comunità dal 1967. E negli ultimi quattro anni da vicepresidente ha ribadito la sua attenzione a questi temi. L’ha fatto sostenendo il Respect for marriage act volto a tutelare i matrimoni tra persone dello stesso sesso e tra individui di diversa etnia, nominando molti membri della comunità Lgbt nelle amministrazioni e visitando luoghi chiave per la comunità, come lo Stonewall Inn da dove l’anno scorso ha detto che «la lotta per l’uguaglianza non è finita». L’impegno costante nel campo dei diritti ha portato la Human Rights Campaign a definire l’amministrazione Biden-Harris «la più pro-uguaglianza della storia».

Lo schieramento delle star

Non stupisce quindi che molti personaggi pubblici sensibili ai diritti delle donne e delle persone Lgbt abbiano deciso di schierarsi con Kamala Harris. Tra le ultime c’è stata la cantautrice Beyoncé, che venerdì sera a Houston, in Texas, ha detto: «Non sono qui come celebrità, non sono qui come esponente politico. Sono qui come madre». Tra un pubblico numeroso, braccialetti a led rossi, bianchi e blu e le scritte «trust women» e «freedom» sui maxischermi, Beyoncé ha aggiunto che «si preoccupa profondamente del mondo in cui vivono i suoi figli e tutti i nostri figli», che dovrebbe essere «un mondo in cui abbiamo la libertà di controllare i nostri corpi».

Tra le prime a esporsi c’era stata Taylor Swift, che sul suo account Instagram aveva scritto che avrebbe votato per Harris perché «combatte per i diritti». Aveva poi commentato la nomina di Tim Walz come candidato vicepresidente dicendo di sentirsi «rincuorata» dato che lui «da decenni difende i diritti Lgbtq+, la fecondazione in vitro e il diritto di autodeterminazione delle donne».

E poi Billie Eilish, Barbra Streisand, Jane Fonda, Olivia Rodrigo, Sarah Jessica Parker, Eva Longoria, ma la lista è molto più lunga. Tanti sono anche gli uomini, come l’attore George Takei che ha definito Harris «una campionessa per la comunità» Lgbt. O come il conduttore Andy Cohen e l’attore Ben Stiller che in un video girato insieme hanno detto che il loro voto «è un investimento sul futuro» delle rispettive figlie.

Chi ha deciso di esporsi dichiarando di votare per Kamala Harris non lo farà quindi solo perché coinvolto in prima persona in quanto donna o membro della comunità Lgbt, ma anche per le generazioni future. Perché, come aveva detto Harris dopo aver nominato Walz, «la battaglia non è solo contro Donald Trump, ma per la libertà. La libertà di amare chi vogliamo e la libertà delle donne di decidere cosa fare del proprio corpo e non lasciare che lo faccia il governo».

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