In quella che è stata forse la sua prima dichiarazione di politica estera dopo la vittoria elettorale, Donald Trump ha minacciato di imporre delle tariffe generali per tutti i beni importati da Messico, Canada e Cina qualora questi non s’impegnino a imporre controlli più stringenti ai loro confini.

Tariffe accresciute fino al 25 per cento e destinate a rimanere in vigore fino a quando «le droghe, in particolare il Fentanyl, e tutti gli stranieri illegali cesseranno d’invadere il nostro paese», ha proclamato il prossimo presidente con il suo solito lessico iperbolico e infantile.

Scopriremo tra qualche settimana se si tratta della boutade di un uomo volubile e imprevedibile o di qualcosa di più serio. Per il momento è però utile riflettere sulle ragioni di una simile uscita, la visione delle relazioni internazionali che vi sottostà e gli inevitabili cortocircuiti che ne conseguono.

Capitalizzare la popolarità

Brandire le tariffe e collegarle a temi che si sono rivelati elettoralmente vincenti – immigrazione e criminalità – serve innanzitutto a parlare al proprio popolo, per confermare l’impegno assunto nella campagna presidenziale e puntellare il consenso ottenuto. È normale che il presidente eletto lo faccia e lo continui a fare anche una volta insediatosi il prossimo 20 gennaio.

Perché Trump deve cercare di capitalizzare subito sulla crescita di popolarità che un successo elettorale inevitabilmente genera, per evitare di scendere sotto una soglia minima di consenso, pena un immediato indebolimento politico; e perché, in una democrazia a ciclo elettorale ormai perpetuo, già si comincia a guardare al midterm 2026 e non si vuole assolutamente perdere il vantaggio maturato su questi temi.

Declinate in termini non solo di protezione dalla sleale concorrenza straniera o di rilancio del manifatturiero, ma anche come modo per rivitalizzare un’America vera e profonda devastata dalla globalizzazione e dalla deindustrializzazione, le tariffe come strumento di politica estera sono divenute vieppiù popolari, a destra e non solo. Una popolarità, questa, che aumenta laddove esse sono intrecciate con temi securitari, ovvero con la facile attribuzione ad “altri” stranieri le responsabilità per crisi – come quella causata dagli oppiacei che provoca decine di migliaia di morti all’anno – che hanno anche ovvie matrici endogene.

Le tariffe, lo sappiamo, sono poi uno degli strumenti preferiti di Donald Trump. Permettono di proiettare forza e decisionismo; paiono validare una visione virile e antagonistica, ma in ultima pacifica, delle relazioni internazionali e della competizione di potenza; incidono in teoria su quell’indicatore basico, le bilance commerciali, che nella sua visione assai semplicistica Trump spesso utilizza per definire vincenti e sconfitti dell’ordine internazionale.

Le contraddizioni e i cortocircuiti sono però plurimi. Dentro processi d’integrazione globale e complesse supply chains transnazionali, le tariffe, per essere efficaci, debbono venire utilizzate con accortezza e selettività anche da parte della principale potenza mondiale. Possono risultare incisive, e finanche necessarie, se funzionali a una politica finalizzata a maturare un’autonomia produttiva di beni ad alto contenuto tecnologico e valore strategico.

Armi a doppio taglio

Rischiano di avere conseguenze devastanti, su consumo e occupazione al tempo stesso, se colpiscono invece beni intermedi il cui ciclo di produzione si conclude negli Usa stessi o prodotti, pensiamo al recente caso dell’acciaio, di cui altri settori industriali hanno bisogno e che si ritrovano a dover pagare molto di più. Possono inoltre contribuire a dinamiche inflattive i cui effetti, anche politico-elettorali, abbiamo ben visto in tempi recenti. Ovvero possono semplicemente determinare un riorientamento dei diversi stadi delle supply chains invece di riportare la produzione nello stesso paese che le adotta. Tra il 2017 e il 2023, ad esempio, il deficit commerciale degli Usa con la Cina si è significativamente ridotto, ma sono contestualmente esplosi quelli con Messico (raddoppiato nello stesso periodo) o Vietnam (addirittura triplicato)

E questo ci porta al caso specifico di Messico e Canada. Che sono, dopo l’Unione europea e la Cina, i principali partner commerciali degli Usa. Con i quali solo pochi anni fa – con Trump alla Casa Bianca – è stata siglata una significativa revisione dell’accordo di libero scambio, il Nafta, entrato in vigore nel 1993. Revisione, questa, non solo nominale – oggi si chiama USMCA, United States-Mexico-Canada – ma che ha visto mutamenti sostanziali e attratto un largo consenso bipartisan al Congresso (il Senato la approvò 89 a 10; la Camera 385 a 41). Lo USMCA contiene numerose clausole chiaramente finalizzate a colpire la Cina, impedendole di beneficiare indirettamente dei processi d’integrazione economica nordamericana.

Tra queste: vincoli alla possibilità dei tre paesi di negoziare bilateralmente con Pechino, barriere alla componentistica cinese nel cruciale settore automobilistico, misure per limitare gli investimenti cinesi, azioni coordinate contro la manipolazione valutaria e molto altro. La logica che sottostava all’USMCA – e che Biden ha in larga misura riaffermato – era che l’auspicato disaccoppiamento dell’economia statunitense da quella cinese andasse perseguito anche approfondendo un sistema d’interdipendenze regionalizzate di cui quella nordamericana rappresenta un esempio paradigmatico.

Almeno a parole, Trump – che quella logica aveva fatto infine propria nel 2018-20 – oggi la ripudia. E promette guerre commerciali a 360 gradi che minacciano di destabilizzare un ordine internazionale di suo fragile e sempre più frammentato.

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