L’operazione israeliana contro gli Houthi a Hodeida è improntata a considerazioni politiche più che militari. Segna la distanza del premier dagli Usa, dove arriverà questo lunedì. Sperando di trovare una sponda in Trump
Mentre Netanyahu è in partenza per gli Stati Uniti, l’incendio provocato dal raid aereo dell’Idf su Hodeida, continua a essere «visibile in tutto il Medio Oriente». Parole eloquenti, quelle pronunciate dal ministro della Difesa israeliano, cui lo stesso Gallant aggiunge il rimando al “chiaro” significato di quelle gigantesche, e divoranti, fiamme.
E sul punto, davvero, di dubbi ve ne sono pochi. Attaccando la strategica città yemenita, porta d’ingresso di approvvigionamenti e armi – secondo il Mossad è a Hodeida che arrivano i droni di fabbricazione iraniana simili a quello che ha colpito Tel Aviv –, che consentono agli Houthi di mantenere il controllo nel nord della penisola, Israele applica ancora una volta la sua dottrina strategica, fondata sul principio della deterrenza. Chiunque attacchi il suo territorio, fosse anche a grande distanza come gli Houthi, sa che verrà inesorabilmente colpito, recita quella dottrina. Lo rammenta anche Netanyahu, per il quale l’attacco «chiarisce ai nostri nemici che non esiste luogo in cui non possa arrivare il lungo braccio dello stato di Israele».
Un’operazione politica
Ma l’operazione in Yemen ha valore politico prima ancora che militare. Sin qui Israele ha contato sull’ombrello di protezione aperto da Usa e Gran Bretagna per intercettare missili e droni lanciati dagli Houthi verso il suo territorio. Scudo aereo-navale che ha non solo la funzione di garantire sicurezza allo speciale alleato, ma anche evitare che ordigni andati a segno inneschino reazioni capaci di scatenare quella guerra regionale con l’Iran, protettore degli Houthi, che Washington vuole evitare a ogni costo.
Scenario di contenimento quanto meno incrinato dopo l’audace missione degli F15 con la Stella di David. Non a caso gli Usa fanno sapere che il raid non è avvenuta in collaborazione con il Pentagono, mentre Bibi sottolinea come chiunque voglia un Medio Oriente stabile e sicuro «dovrebbe opporsi all’asse del male iraniano e sostenere la lotta di Israele contro l’Iran e le sue metastasi ovunque: nello Yemen, a Gaza, in Libano».
Sul fronte opposto i sempre più centrali Houthi denunciano un bilancio di sei “martiri” e almeno 90 feriti. E promettono una reazione “enorme” contro obiettivi civili israeliani: il porto, gli impianti elettrici e petroliferi distrutti, impongono, dicono le milizie filoiraniane, di colpire bersagli di analoga natura. Nel mirino, però, mettono l’intera «aggressione americano-britannica-israeliana». Rappresaglia scattata immediatamente con il lancio di un missile verso Eilat, intercettato dal sistema di difesa Arrow 3, e un attacco nel Mar Rosso alla nave Usa Pumba.
Il punto di vista iraniano
Situazione gravida di rischi, anche secondo Teheran, decisa a mantenere in forma la guerra e a parteciparvi solo indirettamente attraverso i suoi proxies: Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano (dove Israele ha colpito sempre nella notte di sabato due depositi d’armi), appunto gli Houthi in Yemen. Dopo aver condannato i raid israeliani nella penisola arabica, l’Iran ha paventato «un’escalation e un’espansione della guerra a seguito delle pericolose intemerate israeliane»: anche se Teheran non cerca lo scontro diretto. Come ha mostrato l’elezione del riformista moderato Pezeskhian alla presidenza della Repubblica Islamica, buona parte della società iraniana rifugge dall’idea di inasprire le tensioni con gli Usa. L’ala conservatrice del regime deve tenerne conto di questo stato d’animo collettivo, pena l’accentuarsi della crisi di legittimazione del “sistema”.
La visita
In questo infuocato scenario, che preoccupa anche alleati mediorientali degli Usa come Egitto e Arabia Saudita – Riad, che dal 2023 è impegnata, dopo esservi stata a lungo coinvolta, a mediare nel conflitto interno yemenita, nega di aver aperto il suo spazio aereo ai caccia israeliani –, Netanyahu vola Oltreoceano. È invitato dal Congresso ma il cuore del viaggio è costituito dall’incontro con Biden, e, soprattutto, da quello, che cercherà, con Trump.
L’amministrazione Usa vuole la tregua a Gaza. Anche per ragioni elettorali: seppur Biden si ritiri dalla corsa per la Casa Bianca, i dem devono presentarsi alle urne con risultati tangibili su quel conflitto, pena il calo di consenso tra importanti fasce dell’elettorato. Una tregua di sei settimane consentirebbe, forse, agli Usa di provare a spingere per una soluzione più duratura.
Netanyahu ha l’esigenza opposta: punta sul ritorno di Trump alla Casa Bianca e, nell’attesa, non intende fare concessioni che pregiudichino la sua politica. Bibi vede vicino il traguardo, ma deve continuare a comprare tempo: sperando che a novembre al 100 di Pennsylvania Avenue si insedi il tycoon ostile all’Iran e ai palestinesi. Potrebbe accettare, a malincuore, una tregua in cambio degli ostaggi, ormai in condizioni limite secondo l’intelligence, ma non un accordo sul dopo guerra a Gaza.
La risoluzione votata alla Knesset sul no a uno stato palestinese, lo aiuta. Se proprio tregua fosse, dopo 42 giorni ordinerebbe all’Idf di riprendere le operazioni militari. E se la pressione internazionale su questo versante diventasse insostenibile, per far saltare il banco avrebbe sempre a disposizione la carta libanese: i piani per spingere oltre il Litani il Partito di Dio – se non distruggerne l’organizzazione militare in un conflitto a tutto campo –, sono pronti da tempo.
Sperare in Trump
Insomma, è nel miracolato Trump che il riottoso Bibi confida. Da lui spera di ottenere le garanzie che Biden non ha voluto dargli. Chi, dopo il 7 ottobre, avrebbe scommesso che Netanyahu sarebbe arrivato, ancora in sella, a questa lunga estate calda? Davvero pochi. L’abilità di Bibi, che bene conosce il suo paese e sa come ammaliarlo, è stato durare. Lo ha fatto mettendo la guerra al centro della sua politica. Non è detto che il premier perda le elezioni se il suo governo cadesse. Prospettiva che potrebbe materializzarsi se la destra nazionalrelgiosa e messianica, decisa a tutelare i coloni e a annettere Cisgiordania e Gaza, votasse contro l’accordo voluto dagli Usa e lasciasse l’esecutivo; se fosse impossibile dare risposta soddisfacente al non possumus dei partiti ultraortodossi, scioccati dall’invio delle cartoline militari agli studenti delle yeshivah, le scuole religiose: fine di un privilegio, per decisione dell’Alta Corte, che aveva sancito lo storico patto tra mondo haredi e sionismo secolare agli albori della fondazione dello stato.
Anche in un simile scenario sarebbe, comunque, il tempo, fattore chiave in politica, a decidere: il 27 luglio inizia la pausa estiva della Knesset , tre mesi in cui l’assemblea cessa qualsiasi attività. Alla ripresa Bibi avrebbe davanti solo pochi giorni prima di sapere se da Mar-a-Lago, si alzerà un elicottero diretto a Washington. Attesa che potrebbe sembragli un istante a confronto dei dodici mesi appena trascorsi.
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