L’avvocato newyorchese classe 1966, figlio di un sopravvissuto alla Shoah, per anni è stato un grande ammiratore di Trump e suo difensore pubblico. Non solo, per conto del tycoon cercava accordi con la Russia e metteva a tacere possibili scandali come quello di Stormy Daniels, sul quale testimonierà durante il processo contro l’ex presidente
Nella visione del mondo e dei rapporti umani dell’ex presidente Donald Trump una parte fondamentale la occupa la lealtà. Anzi, la fedeltà a lui come leader. Lo aveva già detto esplicitamente al capo del Fbi James Comey, in occasione di uno dei loro primi incontri alla Casa Bianca.
Non si tratta solo di un senso profondo di amicizia. Il tycoon si aspetta che per lui si sia disposti ad andare oltre la legge, le convenzioni sociali e le amicizie. Per anni il suo collaboratore perfetto è stato l’avvocato Michael Cohen che, prima di lavorare con lui era un suo grande ammiratore. Tra qualche giorno la stessa persona che è stato il collaboratore-modello di Trump, diventerà il suo grande accusatore.
Il processo è quello che riguarda il pagamento di 130mila dollari da parte dell’ex presidente alla pornostar Stormy Daniels. L’oggetto del dibattimento è la falsa voce in bilancio con cui la Trump Organization ha indicato la spesa. Cohen è stato il tramite tra l’allora candidato repubblicano e l’ex amante. Qualora la versione dell’accusa venisse fatta propria dalla giuria, Trump verrebbe condannato alla vigilia delle elezioni presidenziali.
Chi è Cohen
Cohen è figlio di una famiglia ebraica. Sua madre Sondra era un’infermiera e il padre Maurice un chirurgo, emigrato dalla Polonia dopo essere scampato alla Shoah all’età di undici anni. Diventato avvocato senza frequentare università d’élite, ha svolto un ruolo da partner legale semplice, senza grosse ambizioni, se non quelle ovvie per un nativo di New York.
Parliamo ovviamente di politica. Cohen per molti anni è stato registrato nella file del Partito democratico e ha tentato di candidarsi al consiglio cittadino di New York nel 2003, cambiando affiliazione per la prima volta col partito repubblicano. Le cose non sono andate bene ma, nello stesso periodo, è fiorito il suo business nel settore dei taxi, in partnership con l’imprenditore Simon Garber, definito gergalmente come “Taxi King”.
Dopo la lettura del libro The Art of Deal, pubblicato per la prima volta nel 1987, per Cohen l’obiettivo massimo è diventato quello di lavorare con il suo mito, Donald Trump. Che all’epoca era soltanto un’imprenditore immobiliare, un democratico sui generis. Come Cohen del resto, che aveva fatto volontariato nel 1988 per la campagna presidenziale perdente di Michael Dukakis e aveva votato per Obama nel 2008.
Il 2006 è stato l’anno fondamentale: Cohen è riuscito a convincere i genitori e i suoceri che bisognava investire in alcune proprietà nella Trump Tower per ottenere un’entratura nella stretta cerchia di Trump. Pian piano ne ha conquistato la fiducia e si è trasformato in quello che la stampa definiva “il mastino” di Donald, il suo braccio destro sempre pronto a intervenire quanto qualcosa andava male.
Il “mastino”
Non a caso Trump gli ha affidato una questione delicatissima, in piena campagna elettorale: far tacere le vecchie voci sulla storia extraconiugale con Stormy Daniels, avvenuta all’inizio del Duemila durante i primi anni del suo matrimonio con Melania quando era appena nato il piccolo Barron.
In quel periodo Cohen ha difeso Trump anche sui social, in modo acceso. Usa lo slogan “lock her up”, “rinchiudetela”, rivolto a Hillary Clinton e, nel marzo 2017, un paio di mesi dopo l’insediamento del neo presidente alla Casa Bianca, ha annunciato di essere diventato un repubblicano.
In quel periodo, secondo alcune indiscrezioni del Washington Post, ha svolto anche un compito più segreto e ancora più importante: resettare i rapporti con la Russia di Vladimir Putin. È stato proprio lui, nel gennaio 2017, a scrivere al portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov. Obiettivo: togliere le sanzioni a Mosca e ripartire per una nuova fase.
Cosa che non avviene perché Cohen, dopo aver occupato cariche all’interno del partito repubblicano, viene indagato dal Fbi proprio per i suoi rapporti poco chieri con la Russia che in realtà risalgono al biennio 2013-2015, quando la Trump Organization trattava per costruire un grattacielo a Mosca.
Viene arrestato nell’agosto 2018 e lì comincia il suo calvario: si dichiara colpevole di tutte le accuse e si dice disposto a cooperare. Una decisione su cui avrebbe influito anche l’anziano padre «non disposto a essere infangato da Trump dopo essere scampato all’Olocausto».
Ora Cohen può vendicarsi anche delle offese ricevute da Trump. Il problema è che l’avvocato è noto per essere un bugiardo e una delle sue condanne gli deriva dal fatto di aver mentito di fronte a un commissione del Senato. Quanto può essere credibile, stavolta? Secondo il giudice Arthur Engoron, che ha multato la Trump Organization lo scorso febbraio, molto. Per la giuria scelta accuratamente da dodici cittadini di New York il più possibile neutrale, ancora non si sa.
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