La procura della Corte penale internazionale, dopo aver accumulato una miriade di prove, non poteva fare altro. Era in gioco la sua credibilità
In Israele si sono alzati alti lai, persino tra i suoi oppositori, per la richiesta di arresti formulata dal procuratore della Corte penale internazionale che accomuna nello stesso destino Benjamin Netanyahu e i capi di Hamas. Il premier di uno stato democratico e i leader di un’organizzazione terroristica.
Eppure suonano maldestre le accuse scagliate contro il procuratore Karim Khan, 54 anni, cittadino britannico di origine pakistana, laureato a Oxford, considerato un uomo saggio, mite ed equilibrato, tra i massimi esperti di diritti umani, causa alla quale ha dedicato oltre trent’anni di vita.
Khan è seguace del Corano ma aderente al movimento islamico ahmadiyya perseguitato dai correligionari perché promotore di un’interpretazione non violenta del libro sacro e dichiarato illegale in Pakistan con gli adepti che vengono considerati “non musulmani”.
La sua nomina alla Corte penale è stata caldeggiata nel 2021 anche da Stati Uniti e Israele, due paesi che pure non hanno ratificato l’adesione a quel tribunale ma che non hanno mancato di apprezzare le doti professionali del candidato. Repentino il cambio di valutazione.
Nel discorso con il quale ha illustrato il provvedimento Khan ha tenuto a sottolineare la necessità del diritto internazionale, per essere credibile, di perseguire chiunque violi le norme senza distinzioni di qualifica: l’equanimità come sola maniera per difendere i valori che dovrebbero restare come collante condiviso tra tutte le genti.
Analoga misura aveva firmato per Vladimir Putin dopo gli orrori dell’Ucraina ricevendone in cambio un mandato di cattura nei suoi confronti da parte della Russia.
La parola alla Corte
La sua è una richiesta, la Corte deciderà se accoglierla o meno. L’atto, oltre a Nentayahu, colpisce il ministro della Difesa Yoav Gallant, per crimini di guerra e contro l’umanità. Nel dettaglio sono sospettati di omicidi volontari, sterminio e di aver deliberatamente ridotto i civili palestinesi alla fame, di aver privato gli stessi civili «di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana con il taglio di forniture idriche e delle forniture di elettricità».
Sull’altro fronte sono tre gli accusati di crimini di guerra e contro l’umanità, oltre che di presa di ostaggi, di stupro e di altre violenze sessuali, uccisione di centinaia di civili israeliani, tortura, trattamenti crudeli, oltraggi alla dignità personale dei prigionieri: il capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar, il comandante dell’ala militare dell’organizzazione Mohammed Deif (inafferrabile nonostante le forze dell’ordine di Israele gli diano la caccia da decenni) e il capo dell’ufficio politico Ismail Haniyeh, esule in Qatar e in Turchia.
Anche se gli arresti fossero ratificati dalla Corte ben difficilmente potrebbero essere eseguiti. Ma Israele diventerebbe la prigione a cielo aperto per Bibi Netanyahu, impossibilitato a spostarsi nel 124 paesi che hanno riconosciuto il tribunale. Sarebbe un premier più che dimezzato e in oggettive condizioni di difficoltà a svolgere il suo mandato.
La decisione del procuratore, seppur clamorosa perché per la prima volta colpisce un alleato degli Stati Uniti, non è sorprendente. Dopo la carneficina del 7 ottobre, un grumo di Shoah, la risposta dello stato ebraico è stata considerata come legittima.
Non così, non nella maniera in cui è stata attuata con i bombardamenti sistematici e indiscriminati che hanno già provocato circa 35.000 morti, tra cui 9.500 donne e 14.500 bambini, gli spostamenti forzati da nord a sud degli abitanti di Gaza che sono un milione e ottocentomila, il blocco più volte attuato degli aiuti umanitari, la carestia conseguente. E il tutto sotto gli occhi impotenti della comunità internazionale che ha cercato di più volte di ridurre il governo israeliano alla ragionevolezza, senza peraltro riuscirci.
Non tutta Gaza è Hamas
Netanyahu paga l’idea che il 7 ottobre potesse emendare ogni azione, che ogni massacro potesse essere scusato in virtù del suo obbligo di garantire la sicurezza dei propri cittadini attraverso l’eliminazione completa di Hamas. Obiettivo impossibile, come i fatti si sono peritati di dimostrare. E un organismo indipendente come la procura della Corte penale internazionale non poteva far altro, una volta accumulate le prove, che presentare il conto salato.
Né vale l’alibi dello stato democratico che combatte contro il terrorismo. Perché, ribaltando il cannocchiale, proprio da uno stato democratico ci si aspetta una reazione che non sia equiparabile a quella dei suoi indubbi carnefici.
Una reazione che tenga nel debito conto il rispetto della vita umana di chi è innocente. Non tutta Gaza è Hamas. E non bastano i volantini lanciati dal cielo per indurre la gente a spostarsi da dove cadranno presumibilmente gli ordigni per salvarsi l’anima e la ragione se il risultato finale è: Gaza una terra desolata e un cimitero con troppi innocenti.
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