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Il freno tedesco al price cap europeo ritarda la risposta alla crisi ma ha avviato il dibattito sulla natura del piano.
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I paesi del nord, come l’Olanda, non approvano l’idea di un fondo europeo per aiutare gli stati membri a far fronte al rincaro dei prezzi, perché, dal loro punto di vista, è anti competitivo e potrebbe aprire le porte a una mutualizzazione dei debiti nazionali, come quello italiano.
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Intanto gli accordi di Orban con Gazprom aprono una via rischiosa.
L’inverno sta arrivando in tutta l’Unione europea e nell’attuale guerra al rincaro dei prezzi energetici, la Germania sembra aver lanciato la propria controffensiva. Il cancelliere Olaf Scholz ha infatti annunciato un pacchetto di sostegno da 200 miliardi di euro, la cui spesa sarà distribuita su due anni, con l’obiettivo di aiutare imprese e famiglie, ponendo un freno al prezzo del gas e riducendo le imposte sulla vendita di carburante. Se per la Germania questo intervento è uno scudo difensivo più che giustificato, per molti paesi europei la decisione tedesca è un vero e proprio bazooka economico e politico.
Sebbene la Germania non abbia fatto altro che seguire l’esempio di altri paesi europei, come la Francia e l’Olanda, che sono anch’essi intervenuti per limitare i costi energetici con l’aiuto di sussidi pubblici, il pacchetto tedesco è notevolmente superiore. Ad esempio, le misure di aiuto per il rincaro energetico adottate dalla Francia, la seconda economia dell’eurozona dopo quella tedesca, ammontano a circa 20 miliardi di euro, mentre in Olanda si attestano attorno ai 17 miliardi di euro. In entrambi i casi si tratta di aiuti alle famiglie del valore di un decimo di quello che la Germania stanzierà, ma queste economie non sono comparabili a quella tedesca.
Ripercussioni economiche
Mentre la Commissione europea sta valutando se il pacchetto di sostegno all’energia tedesco possa essere considerato anti competitivo – perché aiuterebbe eccessivamente le imprese tedesche, distorcendo la concorrenza del mercato unico –, per la Germania il pacchetto è proporzionale alle dimensioni e alla vulnerabilità della sua economia. Si tratta del 5 per cento del suo Pil.
Il paese, che prima dello scoppio della guerra in Ucraina dipendeva dal gas russo per il 55 per cento dei suoi consumi, ha già ridotto la domanda di energia molto più di molti altri paesi membri e a caro prezzo: la produzione industriale tedesca sta crollando e settori come quello automobilistico, digitale e chimico soffrono anche la forte carenza di materie prime che arrivavano dalla Russia o dalla Cina, la cui fornitura è ora limitata.
Nonostante l’incidente del Nord Stream 1 e il fatto che il Nord Stream 2 non sia mai entrato in funzione, il gas, proveniente ora da altri paesi come la Norvegia, rimane la principale fonte di energia in Germania (e non solo), ricoprendo circa il 37 per cento del mix energetico complessivo e determinando quindi anche il prezzo finale dell’elettricità, con un impatto senza precedenti sui costi sostenuti da aziende e famiglie e sull’economia tedesca stessa.
Secondo i dati della Commissione europea, la crescita del Pil tedesco nel 2022 potrebbe attestarsi all’1,4 per cento, trend molto contenuto rispetto ad altri paesi europei. Per l’Italia si prevede una crescita del 2,9 per cento, per la Francia del 2,4 per cento, per l’Olanda del 3 per cento e per l’Ungheria del 5,2 per cento. Sicuramente, i trend economici negativi in Germania, l’economia trainante dell’Unione europea, avranno ripercussioni negative anche sul resto del blocco.
Ricadute politiche
Al di là delle questioni prettamente economiche, la decisione tedesca ha di fatto forti ripercussioni anche in ambito politico. Infatti, il problema del pacchetto tedesco non riguarda solo la sua entità, ma anche la tempistica con cui questa manovra è stata annunciata: il 29 settembre, un giorno prima che i ministri dell’Energia europei discutessero un approccio coordinato.
La scelta di Berlino è stata sicuramente dettata da necessità interne legate al bisogno politico di Scholz di aumentare la propria legittimità politica sostenendo le famiglie e le imprese tedesche. Infatti, secondo un sondaggio dell’Istituto tedesco Insa (Institute for new social answers) dello scorso agosto, circa due terzi dei tedeschi non si ritengono soddisfatti dell’operato del cancelliere e della sua coalizione. In particolare, solo il 25 per cento ritiene che stia facendo bene il suo lavoro, contro un 62 per cento che pensa il contrario.
Ancora una volta le necessità di politica interna della Germania si scontrano con quelle dettate dalle sue responsabilità di leader a livello europeo. Di fatto, una migliore comunicazione avrebbe potuto attenuare le molteplici reazioni che si sono susseguite, sollevando la polvere da quella vecchia cortina che prima della pandemia sembrava dividere l’Europa del nord dal resto del continente.
Se a ovest Emmanuel Macron incolpa Berlino di egoismo per non aver coordinato adeguatamente la sua risposta alla crisi, a sud Mario Draghi ha sottolineato quanto la decisione tedesca possa mettere a rischio l’unità dell’Unione europea. A est, invece, un meno pacato Viktor Orban ha accusato la Germania di cannibalismo.
Strumenti possibili
Se è nell’interesse sia della Germania che dell’Europa che Berlino ricucia rapidamente i rapporti e sostenga un approccio più armonizzato a livello europeo, la strada da percorrere non è scontata.
Nel loro articolo congiunto, il commissario all’Economia Gentiloni e il commissario alla Concorrenza Thierry Breton hanno sottolineato l’importanza di evitare una frammentazione del mercato unico, creando una corsa ai sussidi. Servono quindi strumenti mutualizzati a livello europeo per far fronte alla crisi energetica e, per aiutare i paesi a far fronte agli alti prezzi dell’energia, si potrebbe riutilizzare – come sostenuto anche da Draghi – il piano Sure, impiegato in tempi di pandemia per sostenere gli interventi nazionali contro la disoccupazione.
Tuttavia, i paesi del nord, come l’Olanda non approvano l’idea di un fondo europeo per aiutare gli stati membri a far fronte al rincaro dei prezzi, perché, dal loro punto di vista, è anti competitivo e potrebbe aprire le porte a una mutualizzazione dei debiti nazionali, come quello italiano.
Quello che è chiaro a tutti, però, è che se le tensioni interne dovessero inasprirsi, l’Unione europea farebbe il gioco di Putin che punta a minarne l’unità. Già ad oggi, l’Ungheria, che è da sempre contraria alle sanzioni europee contro Mosca – perché ritenute essere dannose più per gli stati membri che non per la Russia –, ha stabilito accordi particolari con la russa Gazprom per rinviare i pagamenti del consumo del gas dei prossimi sei mesi. Questo accordo non solo consentirebbe a Budapest di risparmiare miliardi di euro, ma potrebbe anche aprire una pericolosa scorciatoia per altri paesi membri se l’Unione europea non dovesse dimostrarsi all’altezza.
Se il pacchetto tedesco ha causato un inasprimento delle relazioni interne europee, in un momento in cui l’Europa non può permetterselo, ha anche permesso a tutti di scoprire le proprie carte. Al di là del fondo comune, da nord a sud tutti i governi sembrano convinti del fatto che serva una risposta coordinata per far fronte al costo dell’energia.
Al momento, la maggioranza degli stati membri sta spingendo per un tetto al prezzo del gas importato, che ridurrebbe il livello di sussidi nazionali necessari. D’altro canto, per la Germania l’Unione europea dovrebbe diventare un unico acquirente di energia, così com’era successo con i vaccini. La strada non è in discesa.
Sicuramente, tanta più divisione ci sarà sulla natura di un piano congiunto, e tanto più tempo ci vorrà per implementarlo, tanto più grande e costoso alla fine dovrà essere il piano stesso.
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