I rivali di Trump per la nomination repubblicana non hanno alcuna chance. Perché l’ex presidente è stato capace di unire la tradizionale componente populista del conservatorismo reaganiano a una tradizione molto più selvaggia della società e della cultura americana
La stagione delle primarie del partito repubblicano inizierà ufficialmente tra quattro mesi, il 15 gennaio 2024, il giorno in cui si svolgeranno i caucus dell’Iowa. È quindi il momento giusto per fare il punto della situazione e riflettere sull’aspetto più sorprendente e inquietante del presente politico dell’America, e cioè che, salvo un evento medico che lo costringa a ritirarsi dalla corsa, l’ex presidente Donald Trump, incriminato per due volte, accusato in maniera seriale, che ha tenuto testa con un ampio margine di vantaggio per oltre un anno ed attualmente conduce con 43 punti, vincerà la nomina presidenziale repubblicana con un grande distacco.
Non è che gli elettori repubblicani non abbiano avuto alternative a sostenere un uomo che è stato incriminato quattro volte e ha 91 capi d’imputazione in diverse giurisdizioni per crimini che vanno dalla cattiva gestione di documenti riservati, alla cospirazione per frode elettorale. Il campo degli sfidanti rispettosi della legge comprende due governatori in carica, diversi ex governatori, un ex ambasciatore delle Nazioni unite, un senatore americano in carica, un ex membro del Congresso e un uomo d’affari. Ci sono vari candidati che cercano di rivitalizzare una forma di conservatorismo fiducioso e di sani principi che ha dominato il partito dall’inizio con l’elezione di Ronald Reagan nel 1980 e un paio di candidati che sperano di consolidare il populismo di destra che Trump ha portato alla Casa Bianca nel 2016.
Eppure nessuno di questi è arrivato a minacciare la leadership di Trump. Di fatto, il suo vantaggio è così enorme che anche se tutti i candidati che non si chiamano Trump, tranne uno, si ritirassero domani, facendo sì che il sostegno si consolidi su una singola alternativa, questo immaginario sfidante del favorito perderebbe comunque di 19 punti. (Significato: il favore nei sondaggi per l’intero campo combinato è inferiore di 19 punti rispetto al vantaggio di Trump).
La domanda è: perché? La risposta è nel modo in cui Trump ha mescolato la componente populista del conservatorismo reaganiano a una tradizione molto più selvaggia della società e della cultura americana.
Populismo trionfante
Se guardiamo i dati nel dettaglio, possiamo osservare fino a che punto il reaganismo sia stato rigettato dagli elettori repubblicani. Insieme, i tre populisti in corsa (Trump, il governatore della Florida Ron DeSantis, l’uomo d’affari Vivek Ramaswamy) sono nei sondaggi al 75,7 per cento. Gli otto conservatori reaganiani, invece, sono appoggiati da un totale pari al 17,3 per cento. Quella dei populisti non è appena una vittoria: è un massacro.
È parecchio degna di nota la portata del declino di DeSantis nei sondaggi dopo la prima incriminazione di Trump alla fine di marzo. Il governatore della Florida ha oscillato per mesi intorno al 30 per cento, circa 13 punti dietro Trump. Ma nel momento in cui Trump è stato incriminato, l’ex presidente ha registrato un’impennata e DeSantis è sceso, dapprima intorno al 20 per cento, poi si è assestato alla sua posizione attuale, al di sotto del 15 per cento.
Sembra chiaro, dunque, che non solo una consistente maggioranza dell’elettorato repubblicano ha rigettato decisamente e inequivocabilmente il conservatorismo reaganiano e ha abbracciato il populismo di destra al suo posto. Quelli che hanno vissuto questo spostamento populista preferiscono di gran lunga la versione unica rabbiosa, irriverente e roboante di Trump alle sue alternative.
Questa preferenza si spiega se ripensiamo ai temi populisti nella vittoriosa campagna di Reagan per la presidenza nel 1980. Il populismo si definisce in parte come uno stile di politica che in nome del popolo prende di mira con rabbia e risentimento un establishment radicato. Reagan non guidò mai con indignazione. Diceva però di parlare per conto della decenza laboriosa degli americani comuni, di difenderli contro un governo federale arrogante che cavalcava sulle loro spalle ed era «cresciuto oltre il consenso dei governati». Questo ha imposto tasse e regolamenti onerosi, spingendo i tassi di interesse e l’inflazione alle stelle, soffocando le opportunità e reprimendo la produttività. Il governo non era la soluzione ai nostri problemi. Era il problema.
In retrospettiva è chiaro che la presa del potere da parte dei repubblicani al Congresso nel 1994, due anni dopo l’inizio della presidenza di Bill Clinton, e le elezioni della Red Wave del 2010, che aveva avuto origine dall’attacco del Tea Party all’“Obamacare”, sono state entrambe radicalizzazioni populiste del messaggio di Reagan, con un sentimento anti-governativo sempre più arrabbiato di fronte alle espansioni reali e immaginarie della spesa e della regolamentazione federale sotto i presidenti democratici.
Ma questo non è stato niente in confronto a quanto accaduto con la campagna di Trump del 2016.
Il berserk trumpiano
Qualcuno insiste sul fatto che Trump sia stato più moderato dei rivali repubblicani quando si è trattato di attaccare il governo. E c’è del vero in questa affermazione. Trump ha fatto un passo indietro rispetto agli impegni repubblicani di lunga data di privatizzare la previdenza sociale e tagliare la spesa di Medicare. Ha promesso di utilizzare il governo per costringere le imprese a tenere i posti di lavoro nel settore manifatturiero negli Stati Uniti, anche quando trasferirli all’estero prometteva maggiori profitti.
Penso tuttavia che sia più preciso affermare che Trump ha combinato una maggiore flessibilità ideologica con attacchi alle norme e alle istituzioni pubbliche molto più ampi di quanto i conservatori reaganiani abbiano mai preso in considerazione. Trump ha preso di mira i partiti repubblicano e democratico in quanto istituzioni, definendoli del tutto corrotti. Ha attaccato direttamente “i media” e i giornalisti per slealtà verso la nazione e, più tardi, contro sé stesso.
Quando sono partite le indagini sull’interferenza russa nelle elezioni del 2016, si è scagliato contro la comunità dell’intelligence, l’Fbi e il “deep state” più in generale, dichiarandoli i primi promotori di una cospirazione per screditare la sua presidenza e cacciarlo dall’incarico.
In seguito ha attaccato i tribunali per non avere creduto alle sue menzogne sulle elezioni “rubate” del 2020. Ora che deve rispondere in processi federali e statali in tutto il paese, è entrato in guerra con le istituzioni e gli ufficiali incaricati di far rispettare le leggi federali e statali. A volte sembra che Trump sia pronto a distruggere lo stato di diritto stesso.
Nella giusta prospettiva, non sorprende troppo che qualcuno dica e faccia cose simili. Gli Stati Uniti sono sempre stati un luogo libero, popolato in buona percentuale da impostori, fuorilegge, palloni gonfiati e artisti ciarlatani in cerca di idioti da ingannare. Mark Twain lo ha descritto, con il giusto tocco di ironia, nei suoi saggi. PT Barnum ne ha fatto una filosofia di vita completa.
Il defunto romanziere Philip Roth, che scriveva negli anni Novanta, lo ha definito il “berserk indigeno americano”. Il genio diabolico di Trump è stato quello di fondere questa tradizione tipicamente americana dell’antinomica vendita d’assalto con la politica, sintetizzando l’impulso antigovernativo del conservatorismo reaganiano con una spinta populista molto più radicale, volta a liberarsi e abbattere qualsiasi vincolo imposto dall’alto.
John Dillinger si trasformò in un eroe popolare riuscendo a farla franca (per un certo periodo) con rapine in banca ed evasioni dalla prigione. Trump ha fatto (e continua a fare) una cosa simile, ma sul palcoscenico molto più ampio della politica presidenziale. I suoi atti di sfida, il rifiuto di rispettare le normali devozioni del gioco politico, la sua volontà di fare e provare qualsiasi cosa per prevalere contro i suoi avversari, la sua capacità di portare quegli avversari all’apoplessia: tutto questo e altro lo fa sembrare quasi sovrumano agli occhi di decine di milioni di repubblicani.
Questo spiega, a mio avviso, l’incapacità di DeSantis di sfidare Trump alle primarie nel modo in cui si aspettavano tanti intellettuali di destra. Ai repubblicani DeSantis piace. Molti elettori repubblicani pensano che come politico sia praticamente il massimo che si possa immaginare. Ma lui è un politico, un professionista che cerca di far avanzare la sua carriera adottando posizioni che spera si tradurranno in popolarità. Ciò lo rende, inevitabilmente, un po’ falso, un po’ non autentico, un po’ una figura che si mette in posa. Gli elettori lo capiscono. Se Trump non si fosse candidato, avrebbero potuto accettare DeSantis come ultima risorsa.
Trump invece è ancora nella mischia, lotta per la propria libertà in molteplici processi mentre tenta di vendicarsi contro i suoi nemici e quelli dei suoi sostenitori riconquistando la Casa Bianca in una rivincita con Joe Biden. Cosa può esserci di più emozionante di così?
L’America contro sé stessa
Nulla di tutto ciò intende suggerire che la feroce sfida di Trump alle regole, la miriade di presunte violazioni della legge e le manifestazioni di demagogia incredibilmente irresponsabili siano una continuazione, in modo consapevole o diretto, della critica al grande governo del conservatorismo reaganiano. Eppure, ad ogni modo, il trumpismo è un prodotto eretico di quella dispensazione politica che fonde la sua difesa populista e l’adulazione degli americani comuni contro i poteri costituiti con la tradizione sociale e culturale (fino ad ora) del tutto distinta del berserk americano.
Nel guardare lo svolgersi delle primarie repubblicane nei prossimi mesi, osservando increduli un aspirante fuorilegge a capo che vince a mani basse le primarie repubblicane, pareggiando sostanzialmente il presidente in carica nei sondaggi, faremmo bene a tenere a mente questa discendenza. I democratici si trovano ad affrontare una nuova e potente forma di politica populista, che ha però radici americane molto antiche. Sconfiggerla (di nuovo) richiederà intelligenza, risolutezza e più di un po’ di buona fortuna. Non c’è nulla che possa garantire che gli angeli migliori della nostra natura collettiva prevarranno. Pertanto non abbiamo altra scelta che fare il nostro più audace tentativo possibile sperando per il meglio.
Questo articolo è stato pubblicato dalla testata online Persuasion.
La traduzione è a cura di Monica Fava.
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