Biden ha presentato l’accordo tra Israele ed Hezbollah come il primo passo di un percorso di pacificazione che passa da Gaza. Ma un accordo con Hamas è molto più difficile da raggiungere. Anche perché Netanyahu si regge sul sostegno di partiti estremisti che hanno altri progetti per la Striscia. E questo sarà un problema anche per Trump
Joe Biden e Donald Trump divergono su tutto, ma in Medio Oriente hanno un problema in comune: si chiama Benjamin Netanyahu. Per il presidente in carica è un complicatissimo alleato irrinunciabile e ingovernabile, per il suo successore è uno strettissimo sodale politico che si aspetta dalla Casa Bianca il permesso di fare ciò che vuole dopo un anno di divergenze e tensioni. Per Biden la difficoltà è tenerlo a freno, per Trump sarà gestire, ed eventualmente deludere, le aspettative.
Questa continuità problematica nella più generale discontinuità della transizione alla Casa Bianca si legge in filigrana nello sviluppo della situazione nella regione. Biden ha presentato l’accordo fra Israele ed Hezbollah per un cessate il fuoco come il primo passo di un percorso di pacificazione che passa da Gaza e arriva fino alla normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita, una specie di virtuoso effetto domino che renderebbe l’Amministrazione uscente il broker di un accordo che sembrava impossibile.
Questa rappresentazione ottimistica è in conflitto con la realtà. Un accordo con Hamas su Gaza è molto più difficile da raggiungere rispetto a quello con Hezbollah, per varie ragioni.
La prima è la maggiore forza negoziale di Hamas rispetto al gruppo libanese, cosa che deriva dal fatto di avere ancora un centinaio di ostaggi catturati il 7 ottobre. Il Partito di Dio è stato messo in ginocchio dall’offensiva israeliana, e non aveva più molto su cui far leva per prolungare le ostilità.
L’altra ragione per cui l’accordo è molto più difficile è che il governo di Netanyahu si regge sul sostegno di partiti estremisti che hanno dichiarati progetti di colonizzazione sulla Striscia: per loro non c’è altra prospettiva che la distruzione totale di Hamas e, a tendere, la cacciata permanente della popolazione palestinese.
Il primo ministro non solo non ha segnalato di volere prendere le distanze dagli alleati, ma dopo le elezioni americane ha rimandato ogni decisione in materia all’insediamento di Trump, che percepisce come custode e garante della sua impunità.
Qui però le cose si fanno complicate anche per il presidente eletto. Nell’immediato i suoi uomini opportunisticamente raccontano la storia che i nemici di Israele iniziano a sedersi al tavolo per merito suo, consapevoli che con lui alla Casa Bianca tutto cambierà. Ma nel medio periodo teme che Bibi finisca per schiacciare le sue enormi ambizioni di diventare l’eroe del negoziato e della pacificazione regionale sotto l’intransigenza delle sue richieste.
Certo, Netanyahu e Trump ruotano attorno allo stesso asse politico, ma fino a che punto la condivisione di una stessa parte potrà tenere a freno interessi divergenti su una vicenda che per uno è un fatto esistenziale, per l’altro un bilanciamento di rapporti politici e vanità personali?
Infine, c’è il livello della normalizzazione dei rapporti fra sauditi e israeliani. Ovviamente Biden farà di tutto, nel poco tempo che gli rimane, per mostrarsi come il leader che ha rimesso la storia in carreggiata dopo l’orrore del 7 ottobre e le sue conseguenze, senonché quella strada era stato proprio Trump ad aprirla e lastricarla. Di buone intenzioni, si dirà, sapendo dove portano, ma comunque aveva messo con gli Accordi di Abramo le basi per un percorso in quella direzione.
Trump ha ottimi rapporti con il principe ereditario Mohammed bin Salman, il quale ha segnalato in vari modi che sarebbe pronto ad un accordo, ammesso che si trovi una via per far quadrare tutto, ma rimane comunque aperta l’incognita di Netanyahu, che di segnali ne ha dati più con le operazioni militari che con le prese di posizioni politiche. È lui la variabile che nemmeno Trump può controllare.
© Riproduzione riservata