Mishy Harman, fondatore e voce principale del podcast israeliano più ascoltato nel mondo, è d’accordo con le proteste contro la deriva illiberale del governo, ma non esulta affatto per il presunto trionfo della democrazia. Anzi. Teme il principio per cui la mobilitazione può bloccare l’esecutivo: «Cosa faremo quando sarà la folla dell’ultradestra a fermare un governo di sinistra?»
- Mishy Harman, fondatore e voce principale di Israel Story, un podcast sulla storia e le storie di Israele, è d’accordo con le proteste contro il governo Netanyahu, ma nota un aspetto problematico.
- «Cosa succederà se milioni di persone di destra in futuro si metteranno a manifestare contro una decisione politica di un governo di sinistra?», si domanda.
- Quello che è in discussione è l’ossimoro di uno stato confessionale e democratico. La riforma giudiziaria proposta da Netanyahu e fermata per il momento dalla piazza non è che la manifestazione superficiale di cambiamenti molto più vasti e profondi.
Nelle notti delle monumentali proteste che hanno costretto il governo di Benjamin Netanyahu a sospendere la contestata riforma della Corte suprema, Mishy Harman si è unito alla folla radunata attorno alla Knesset. Lo ha fatto per documentare e manifestare.
Harman è il fondatore e la voce principale di Israel Story, un podcast sulla storia e le storie di Israele che ha concepito ormai oltre un decennio fa facendo un viaggio in macchina attraverso gli Stati Uniti in compagnia del suo cane e di This American Life, ormai leggendario format di racconto del presente americano.
Israel Story è diventato uno show radiofonico popolare in Israele e poi un fenomeno globale grazie all’edizione in inglese, che lo ha reso il podcast israeliano più scaricato e ascoltato nel mondo.
Da poco – e non è una coincidenza – Israel Story ha pubblicato una serie parallela dedicata alla Dichiarazione d’Indipendenza, il faro dei manifestanti in queste settimane di tumulto, nella quale i neofiti scoprono cose molto interessanti, tipo che nella dichiarazione non compare mai la parola “democrazia” e si promette l’adozione di una Costituzione che poi non è mai stata scritta.
Harman è andato in piazza anche per testimoniare la sua posizione severamente critica verso Netanyahu e la coalizione di ultradestra che guida.
Ma quello che ha visto in quelle notti, e nelle settimane e mesi che hanno portato a questa fragile tregua fra il governo e i manifestanti, non è solo lo spettacolo democratico di un popolo che in modo pacificamente deciso ferma gli appetiti autoritari di un governante intento a mangiarsi l’indipendenza del potere giudiziario; è anche quello che definisce «un precedente complicato».
Vittoria deprimente
La politica israeliana è un codice difficile da decifrare, ma in questo caso cosa c’è di tanto complicato? «Quella che ho visto in piazza è un’arma a doppio taglio», dice Harman. «C’è stata una mobilitazione popolare incredibilmente efficace, e possiamo dire di aver vinto questo round. Ma c’è qualcosa di profondamente deprimente in questa vittoria, perché la sinistra ha creato un nuovo schema di azione che in futuro potrà essere usato contro di lei».
Bibi, dice Harman, non ha fatto nulla di nuovo. Il suo governo aveva promesso una riforma in quella direzione e sta provando a metterla in pratica, solo che sulla sua strada ha incontrato la piazza mobilitata.
«Ma cosa succederà se milioni di persone di destra in futuro si metteranno a manifestare contro una decisione politica di un governo di sinistra? Si dovrà sospendere un riforma perché il popolo della destra protesta?», si chiede Harman, che vive a Gerusalemme e ha estremamente chiare le tendenze demografiche del paese.
Fra gli haredim ultraortodossi il tasso di natalità è imparagonabile a qualunque altro gruppo sociale, e per la fine di questo decennio saranno il 16 per cento della popolazione. Non è difficile vedere chi e godrà in futuro della forza dei numeri e, perciò, della capacità di mobilitazione.
«Devi essere cieco per non vedere cosa sta succedendo. Temo che queste proteste contribuiranno a creare uno scenario in cui sarà difficile per un governo fare qualsiasi cosa», spiega Harman.
Schieramenti a specchio
Un tema che percorre tutte le storie raccontate da Israel Story è: che cosa rende Israele una nazione unita? Senza nemmeno voler entrare nella ineludibile questione palestinese, il paese è composto da una complicata stratificazione di scontri fra visioni religiose, politiche, etniche, ideologiche.
Visto da lontano, il conflitto fra il popolo democratico e il governo para-autoritario ha appiattito le differenze all’interno degli schieramenti, sciogliendo tutto in una logica polarizzata e banalizzata in cui ci si è trovati costretti a scegliere se le manifestazioni fossero il trionfo della democrazia o i preparativi per il suo funerale.
Spiega Harman: «Si è sprigionata un’energia incredibile, e i un certo senso è chiaramente un trionfo della democrazia. Ma non è così semplice. Ci sono due gruppi che si scontrano: quelli a favore della riforma della giustizia e quelli contrari. Ma se guardiamo più attentamente vediamo altre cose. C’è, ad esempio, una destra ideologicamente conservatrice che è radicata nella struttura democratica, ma in questo momento condivide il campo con la destra illiberale e con gli ultraortodossi che vorrebbero uno stato teocratico», dice Harman.
«Se sono fino in fondo onesto con queste persone, devo anche ammettere che la sinistra propone un’immagine a specchio. Alcuni gruppi, che nella piazza vengono volutamente marginalizzati, vorrebbero che Israele diventasse una democrazia “normale” e secolarizzata, con una netta separazione fra stato e chiesa e via dicendo. Ma questo comporterebbe, ad esempio, l’abolizione della legge del ritorno. In che modo questo tutelerebbe l’esistenza di quell’ossimoro che è lo stato ebraico?».
All’alba della mobilitazione contro Netanyahu, ricorda Harman, i principali organizzatori hanno subito intuito il rischio racchiuso in una protesta che raduna e include tutti, anche quelli che negano il diritto di esistere di uno stato con un riferimento religioso, e figurarsi quelli che apertamente osteggiano l’occupazione dei territori.
«Alcuni gruppi più radicali sono sinceramente stupiti perché la gente protesta soltanto adesso. Il problema, per questi, non è certo la riforma della corte suprema o Netanyahu, ma è la struttura stessa della democrazia israeliana. La categoria della democrazia non è nemmeno prevista nella Dichiarazione d’indipendenza che ora tutti citano. Era presente nelle bozze preparatorie, ma alla fine è stata esclusa dal testo definitivo. C’è una specie di amnesia collettiva su questo punto. Ma per tornare alla questione principale: tanti manifestanti sono sinceramente preoccupati di trovare un modo per tenere insieme uno stato che è allo stesso tempo ebraico e democratico. Ecco, questa è la cosa che non si vede se si riduce tutto allo scontro fra fazioni pro e contro Netanyahu».
La minaccia
L’altra cosa che non si vede è quella che Harman chiama la «paura sottostante», il senso di una minaccia incombente che è la radice profonda della mobilitazione di così tante persone. «Il punto non è una legge problematica, quella è in fondo anche una questione tecnica, ma sta succedendo qualcos’altro». Cosa?
«È la coscienza diffusa nella parte più privilegiata della popolazione, e specialmente fra gli aschenaziti, che il suo status di élite politica si sta erodendo. Hanno il terrore di perdere il controllo. Questo gruppo è ancora al comando da un punto vista culturale e militare, ma sta progressivamente perdendo il controllo politico. Le mobilitazioni così ampie e partecipate sono anche l’esito di questa coscienza», dice Harman, passando continuamente dal “loro” al “noi” nel descrivere un sentimento che si sta diffondendo in parallelo ai profondi cambiamenti demografici.
Vista sotto questa luce, la riforma proposta da Netanyahu e fermata per il momento dalla piazza non è che la manifestazione superficiale di cambiamenti molto più vasti e profondi.
© Riproduzione riservata