Turchia, Arabia Saudita, ma soprattutto Russia e Pechino sono pronte a capitalizzare il probabile disimpegno internazionale del neoeletto presidente degli Stati Uniti. L’ex premier keniota Raila Odinga ha detto: «Se Trump non vuole lavorare con l'Africa, l'Africa ha altri amici»
L’ex premier keniota Raila Odinga lo ha detto chiaramente: «Se [Trump] non vuole lavorare con l'Africa, l'Africa ha altri amici». Turchia, Arabia Saudita, ma soprattutto Russia e Cina, sono pronte a capitalizzare il probabile disimpegno internazionale di The Donald. Si sa, il presidente eletto ha un rapporto complicato con il continente. Nel 2018 definì i paesi africani «shithole countries». E le dure politiche migratorie, minacciate nuovamente in campagna elettorale, hanno dato connotazioni istituzionali all’insulto personale.
In Africa, gli Stati Uniti hanno una lunga storia di promesse disattese. Eppure, nei trascorsi quattro anni, con Joe Biden qualcosa si è mosso. Per quanto molto coreografico e poco sostanzioso, l’African Leaders Summit ospitato da Washington nel 2022 (per la prima volta dal 2014) ha segnalato la necessità di costruire un rapporto più strutturato, copiando non troppo velatamente la Cina che da tempo dialoga regolarmente con il continente nella sua coralità. Ora, con Trump, anche il simbolismo e la cosmesi sono a rischio estinzione.
Il problema principale è l’America First: ovvero come perseguire la strategia isolazionista proponendo all’Africa un'alternativa più credibile/sostenibile agli investimenti e ai controversi prestiti cinesi. Certo, la realpolitik trumpiana è un potenziale assist alle autocrazie africane. Ma che dire invece del pallino per i diritti umani degli altri nuovi inquilini della Casa Bianca?
Va detto che il primo mandato Trump non è stato una completa tabula rasa. Prendiamo “Prosper Africa”: il piano, ancora in vigore, ha lo scopo di «aumentare sostanzialmente il commercio e gli investimenti bidirezionali» con il continente. Ma quanto conta davvero per rilanciare gli scambi, ovvero l'African Growth and Opportunity Act (che offre ai paesi africani un accesso preferenziale al mercato statunitense) dovrà essere rinnovato il prossimo anno. Dopo la minaccia di tariffe per tutti, il sentore è che il programma stavolta potrebbe persino non passare, venire ridimensionato oppure strumentalizzato come leva negoziale per estorcere qualche concessione politica; magari a detrimento dei paesi più vicini alla Cina, primo partner commerciale bilaterale del continente.
Il lavoro di Biden
Che ossessione questa Cina. Quel poco che Biden ha fatto in Africa doveva servire proprio a colmare il divario trentennale con il gigante asiatico. Invece l’ultima decade ha visto Washington inseguire Pechino con soluzioni di dubbia efficacia, coincise peraltro un arretramento dai settori tradizionalmente di pertinenza americana: persino nelle operazioni multilaterali di peacekeeping, tanto celebrate all’epoca di Obama. Ripiegamento che avviene mentre la Cina comincia a spingersi nel comparto della sicurezza con una pervasività senza precedenti.
Dove invece probabilmente Trump non arretrerà è il comparto dei minerali critici. Se non altro per compiacere Elon Musk. Fattore che però parrebbe limitare l’impegno americano in Africa a quei sei sette paesi (su 55) ricchi di materie prime. In questa direzione si muove il Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali, concertato da Biden in sede di G7, e che ha nel continente il suo progetto di punta: il Corridoio di Lobito, rete infrastrutturale pensata per collegare le ricche regioni minerarie di Repubblica Democratica del Congo e Zambia al porto angolano di Lobito. Il dipartimento di Stato lo ha definito “un nuovo modello di investimento infrastrutturale volto a stimolare il commercio regionale, attrarre investimenti privati e promuovere lo sviluppo sostenibile in vari settori”. Resta da vedere se reggerà alle prevedibili tensioni con l'Ue, ma innanzitutto se sarà conciliabile con il principio dell’America First.
Costoso in termini di tempo e finanziamenti (oltre 500 milioni di dollari), il progetto non sembra esattamente il genere di Trump. Senza contare la perplessità già espressa dagli esperti sulla sensatezza di un piano che prevede la spedizione di minerali grezzi laddove la Cina non solo controlla saldamente la fase di raffinazione. A undici anni dal lancio della Nuova via della seta, ha anche già pronte reti di trasporto concorrenziali. A cominciare dalla TAZARA, la storica ferrovia costruita da Mao tra Tanzania e Zambia, che Pechino si è impegnata a ristrutturare.
Il mito di George W. Bush
Salendo la catena del valore, la corsa è senza rivali. Prima produttrice al mondo di veicoli a nuova energia (NEV) e pannelli solari, la Cina sta trainando la transizione energetica dell’Africa, una delle aree del mondo più colpite dal cambiamento climatico. Solo nel 2023, le esportazioni cinesi di NEV verso il continente sono cresciute del 291% mentre continuano ad aumentare gli investimenti cinesi nella mobilità di massa, negli impianti di assemblaggio, così come nella formazione del personale locale. Il tutto mentre Trump prepara un nuovo ritiro degli States dall’accordo di Parigi. E poi c’è la questione degli aiuti sanitari, che il presidente eletto si prevede riporterà a casa. Nei prossimi tre anni la Cina invece ha promesso di “inviare 2.000 medici ed esperti di salute pubblica, lanciare servizi medici gratuiti in 1.000 villaggi e continuare a fornire assistenza contro le epidemie”.
Come scrive Giovanni Carbone dell’ISPI, «per molti leader africani l’ultimo presidente degli Stati Uniti che ha fatto qualcosa per il continente è stato George W. Bush, il cui programma Pepfar ha salvato milioni di vite con la distribuzione di farmaci a prezzi accessibili per curare l’HIV. E in generale, sono rimasti delusi dal fatto che i legami personali di Barack Obama con l’Africa non si siano tradotti in una maggiore attenzione». Ma il danno che potrebbe infliggere Trump stavolta è anche reputazionale.
Dopo decenni di finanziamenti a nove zeri, pure in Africa, la Cina è ancora indietro in termini di soft power. Gli ultimi sondaggi la danno però in rimonta. Soprattutto tra l'opinione pubblica più giovane disillusa nei confronti della democrazia a stelle e strisce esportata a suon di ritorsioni. I prossimi quattro anni targati Trump sono l’occasione per provare il sorpasso.
© Riproduzione riservata