Negli anni recenti si è diffuso un movimento di appropriazione culturale della pratica del surf da parte delle popolazioni africane. Le testimonianze storiche affermano che le prime tracce africane di questa pratica sono antecedenti a quelle occidentali. Un’agenda fra emancipazione e omologazione
Non è soltanto una nuova frontiera. Se il mondo del surf scopre l’Africa e punta decisamente sulle sue coste, ciò avviene anche perché è molto radicato il legame fra il continente e lo sport che per eccellenza rappresenta le discipline della “glisse”, le attività agonistiche che chiamano i concorrenti a fornire prove di estrema destrezza nel rapporto con l’ambiente naturale o artificiale.
Descritto come sport di origini polinesiane, poi adottato in occidente e colmato di valori e significati culturali altamente caratterizzanti, la disciplina della tavola acquatica trova infatti radici antecedenti in alcune zone dell’Africa.
Che adesso cercano di rientrarne in possesso, un po’ per rivendicare una primogenitura, ma molto più per attrarre un segmento di mercato particolarmente vivace e fidelizzato. Soprattutto, l’Africa del surf intende riappropriarsi culturalmente della pratica, dandone una rappresentazione diversa rispetto a quelle di imprinting occidentale.
Mami Wata
Il segnale di più potente cambiamento viene dalla pubblicazione di un libro. S’intitola Afrosurf e in copertina porta una firma particolare: Mami Wata. Nome conosciuto soprattutto per essere una famosa marca sudafricana di abbigliamento e equipaggiamento da mare, ma che soprattutto rimanda a una figura mitologica frutto di sincretismo tra influenze coloniali e appropriazione locale.
Il nome Mami Wata è infatti l’adattamento nella lingua Agni della Costa d’Avorio di Mommy Water, divinità delle acque che a seconda delle circostanze può essere malvagia o munifica. La firma di Mami Wata non soltanto simboleggia un successo imprenditoriale, impersonato dal fondatore dell’azienda Selema Makesela, ma si pone come il sigillo di un legame originario fra le culture africane e la pratica del surf.
Un nesso ribadito nelle prime pagine del testo (per il resto corredato da una galleria di foto estremamente suggestive), dove si dichiara una profondità storica ben più marcata. Perché se le versioni di parte occidentale parlano di un’importazione della pratica surfistica sulle coste africane fatta dagli inglesi nel 1778, vengono rintracciate testimonianze storiche di una sua preesistenza individuata intorno al 1640, in zone costiere appartenenti all’attuale Ghana.
Il libro, realizzato grazie a un’operazione di crowdfunding, ha avuto in seguito una pubblicazione di rango internazionale grazie al marchio Penguin Book. E l’eco che ne è derivata ha permesso di ampliare il messaggio di rivendicazione. Tanto da spingere il quotidiano francese Le Monde a dedicare un vasto reportage al tema, nel quale viene illustrata l’ampia varietà delle culture africane del surf, ciascuna adattata localmente ma tutte quante ansiose di distinguersi rispetto a un canone occidentale che non capiscono.
Surfare contro l’esclusione sociale
Uno sport soltanto per bianchi? L’interrogativo è associato all’immagine consolidata che è stata associata alla pratica del surf. E che in qualche misura era stata mutuata anche nelle zone dell’Africa dove la pratica ha attecchito prima che altrove.
In Afrosurf il racconto di chi in Sudafrica ha dovuto affrontare l’apartheid anche su questo versante testimonia di quanto il diritto a solcare le onde del mare sia stato un fronte di conflitto materiale e simbolico per conquistare il riconoscimento sociale.
Le testimonianze di Michael February e Cass Collier, che in questi anni sono diventati atleti di culto a livello internazionale, raccontano come ci sia stato un tempo in cui la divisione tracciata sulla linea del colore della pelle riguardasse anche l’accesso alle spiagge e alle coste privilegiate, il divieto di incrociarsi nello svolgimento delle attività e infine la conquista del prestigio pubblico. In queste condizioni la tavola da surf diventava un’altra piattaforma per la rivendicazione dei diritti, ma anche lo strumento per l’espressione di uno stile della performance assolutamente caratterizzante.
Da allora la situazione è profondamente cambiata perché altrettanto profondamente è cambiata la struttura sociale della società sudafricana, che dopo aver formalmente messo in archivio l’orrore dell’apartheid viaggia lentamente verso la rimozione delle barriere sostanziali. Ma come riportano le voci sul campo, rimane invariata la qualità del surf di essere uno strumento di integrazione sociale per alcune fasce svantaggiate della popolazione locale.
Come è nel caso dei ragazzi provenienti dalle township, fucine di esclusione sociale e di rischio devianza, che grazie al programma Surfer Not Street Children si vedono dare un’opportunità di integrazione oltreché di pratica sportiva. Inoltre, questa iniziativa rovescia un altro stereotipo legato al surf, sport “bianco” ma anche riservato a una fascia affluente di praticanti. Vederlo trasformare in una pratica agonistica popolare sarà un passaggio di potente mutamento culturale.
Il turismo surfistico
In tema di uso a scopo di integrazione sociale, il surf si rivela utile nei paesi africani non soltanto per integrare i ragazzi delle zone urbane a rischio, ma anche in termini di femminilizzazione della pratica. Su questo fronte spicca il caso del Senegal e della sua atleta di punta, Khadija Sambe. Che è tesserata per una società il cui nome è un programma d’integrazione: Black Girls Surf
Anche su questo versante c’è da piegare uno stereotipo tutto locale, quello che vede il surf come pratica esclusivamente maschile. Per le donne senegalesi la tavola da surf si trasforma così in uno strumento per la rivendicazione di parità.
Un’altra declinazione in termini di libertà da conquistare, anche nei confronti della federazione nazionale che non riconosce questa scuola e dunque non le dà ausilio con rifornimento di materiali e equipaggiamento. Sicché le ragazze praticano come possono e coi mezzi che hanno.
Giusto per ricordare che il surf avrà radici africane, ma che se l’Africa non ha potuto rivendicarle nel corso del tempo è perché le possibilità di sviluppo del movimento hanno dovuto affrontare pesanti carenze strutturali.
A ciò si aggiunga un nuovo rischio incombente, anche se da altro punto di vista si tratta di opportunità: l’individuazione delle coste africane come nuove mete del surfismo internazionale. Il business turistico se ne gioverebbe, ma si dovrebbe anche fare i conti con un uso della risorsa ambientale che risponde a canoni diversi.
La faccia doppia della globalizzazione, che potrebbe aprire un nuovo fronte di conflitto simbolico con le culture surfistiche locali. Roba da maneggiare con estrema cura.
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