- Il governo italiano sembra aver investito molto più del precedente nelle relazioni con gli alleati europei. Si è aperto un periodo molto positivo con la Francia anche su un capitolo delle relazioni bilaterali storicamente concorrenziale come il Mediterraneo.
- I nuovi leader libici non appaiono forse noti e autorevoli ma costituiscono la possibilità di fare tabula rasa di alleanze e influenze tra fazioni interne e attori esterni che hanno costituito un vincolo a un dialogo costruttivo.
- Con il favore di un contesto internazionale mutato gli europei sembrano prendere atto che l’unica soluzione sia quella di smettere di fare affidamento sugli altri per fare il lavoro pesante.
La visita di ieri a Tripoli del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, insieme ai suoi omologhi tedesco e francese, Heiko Maas e Jean-Yves Le Drian, è il chiaro segnale di una ritrovata unità d'intenti europea sulla questione libica. La missione congiunta rappresenta una notizia positiva per due motivi.
Il primo è relativo alla capacità della Ue di individuare i propri interessi prioritari (alla buon’ora, si dirà) e di formare una coalizione piccola, ma assai influente, di paesi che agiscono all’unisono e nella stessa direzione. Il tallone d’Achille della Ue in politica estera e di difesa, rappresentato da sempre nella necessità dell’unanimità, non può condannare l’Europa all’inazione.
La soluzione di una coalizione di paesi che si attivano su alcuni dossier di comune sensibilità pare al momento l'unica possibilità per far funzionare l'Ue. Nella costruzione di queste alleanze intra-governative a favore del proprio interesse nazionale l’Italia dimostra di poter aver un ruolo importante.
Il governo italiano sembra aver investito molto più del precedente nelle relazioni con gli alleati europei. Si è aperto un periodo molto positivo con la Francia anche su un capitolo delle relazioni bilaterali storicamente concorrenziale come il Mediterraneo.
L’asse Draghi-Macron
Il premier italiano Mario Draghi e il presidente francese Emmanuel Macron la vedono in maniera congiunta su molti punti a cominciare dall'economia europea e questo sta favorendo un rapprochement su altri temi.
Sarà necessario sempre di più trasformare questa occasione in un metodo di lavoro. Da diversi anni le spinte contrapposte degli alleati europei hanno contribuito a creare un gioco a somma zero in Libia.
Gli europei e i loro interessi sono finiti marginalizzati mentre russi, turchi, egiziani ed emiratini si contendevano la gestione della crisi, esercitavano influenza e occupavano persino militarmente il paese.
La seconda ragione è costituita dal fatto che la visita dei tre ministri degli Esteri rappresenta la chiusura, e insieme il rilancio, di un percorso di pacificazione della Libia iniziato con il processo di Berlino del gennaio 2020.
L’Europa è stata in grado di riprendere le redini – perlomeno quelle diplomatiche – di una crisi che Russia e Turchia cercavano di gestire sul modello siriano di Astana.
Berlino ha permesso di fare tornare le Nazioni Unite centrali nei negoziati, ha ridato voce ai libici, ha moderato le pulsioni interventiste e permesso infine la nomina di un nuovo governo di unità nazionale, che per quanto provvisorio, appare avere un formale e ampio appoggio delle forze libiche stesse.
I nuovi leader
I nuovi leader, dal presidente al Menfi al primo ministro Dbeiba non appaiono forse sufficientemente noti e autorevoli ma costituiscono la possibilità di fare tabula rasa di parte di quelle alleanze e influenze tra fazioni interne e attori esterni che hanno costituito un vincolo importante a un dialogo costruttivo.
Con il favore di un contesto internazionale mutato gli europei sembrano prendere atto che l’unica soluzione sia quella di smettere di fare affidamento sugli altri per fare il lavoro pesante.
Ciò implica coordinare e aumentare significativamente i propri sforzi per attuare la road map delle Nazioni Unite che dovrebbe portare il paese alle elezioni del prossimo dicembre e impegnarsi molto di più per difenderla dalle più gravi minacce: i tentativi di acuire le divisioni in Libia, l’inerzia alimentata da un’élite libica più interessata all’arricchimento personale che al progresso politico, e gli attacchi destabilizzanti da parte di stati stranieri.
L’arrivo di Joe Biden alla presidenza americana, seppur ancora abbia fatto assai poco in Medio Oriente, sembra aver già scatenato una serie di mosse di riposizionamento cui la crisi libica potrebbe beneficiare: Qatar e partner del Golfo hanno stemperato le divisioni e riallacciato relazioni mentre Turchia ed Egitto hanno compreso che nuove tensioni avrebbero causato una mutua distruzione dei rispettivi interessi.
Incognita mercenari
Alcuni contrasti importanti, tuttavia, restano ancora pronti a deflagrare in aperto conflitto. I russi del Wagner group rimangono nella Libia centrale al soldo degli Emirati e a favore del Generale Haftar, forse poco rassegnato a un ruolo marginale.
I mercenari siriani portati in Libia dai turchi potrebbero essere sacrificati da Erdogan in cambio di un coinvolgimento formale nei futuri piani del governo libico, ma si dovrà trattare. Ancora non è chiaro se il nuovo governo riconoscerà la legittimità degli accordi con Ankara sulla difesa e sulle acque territoriali.
Atti di violenza come quello che ha portato due giorni fa all’uccisione di Mahmoud al-Warfalli, braccio destro di Haftar accusato di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale, potrebbero fare scatenare nuovamente faide e regolamenti di conti interni.
Dopo questa triplice visita l’obiettivo di contribuire a creare un partner locale affidabile, una Libia unificata e pacifica e al contempo preservare l’influenza europea è forse un po' più vicino ma il percorso appare ancora piuttosto tortuoso e richiederà costante collaborazione tra alleati.
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