Il dramma delle morti e delle distruzioni causate dal criminale bombardamento dell’ospedale pediatrico Okhmatdyt di Kiev, dove erano in cura anche bambini malati di cancro, è solo l’ennesima conferma di un elemento comune all’escalation delle guerre in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza: il diffuso e macroscopico coinvolgimento delle popolazioni civili con morti e distruzioni di edifici non militari, e questo nonostante il moderno diritto internazionale di conflitti armati stabilisca vincoli tassativi per limitare gli effetti della violenza bellica sulla popolazione civile.

Secondo stime ufficiali la guerra in Ucraina ha comportato dall’inizio del conflitto più di 11mila vittime civili, di cui almeno 600 minori, mentre i feriti sarebbero più di 22mila. Questi dati danno anche il senso della sproporzione delle vittime civili palestinesi che (secondo il ministero della Salute palestinese e diverse agenzie indipendenti) in dieci mesi di bombardamenti e raid israeliani indiscriminati avrebbero causato 40mila morti e 90mila feriti.

Beninteso non va neppure dimenticata la causa scatenante di questo eccidio: il vile attacco terroristico di Hamas, che il 7 ottobre ha causato fra gli israeliani la strage di 1300 vittime, prevalentemente civili, con morti e aggressioni compiute fra scempi e sevizie indicibili persino nei confronti di neonati e bambini, oltre che la cattura di 250 ostaggi.

Lo scetticismo imperante

Non sono mancate le incriminazioni per crimini di guerra e contro l’umanità della Corte penale internazionale. Eppure scetticismo e riserve sono state espresse anche per questi strumenti della giustizia internazionale, che per quanto ancora sia in work in progress rimane la sola arma per affermare principi basilari del diritto internazionale e un senso comune di umanità.

Nondimeno sulle scene di roghi, distruzioni e della disperazione dei familiari trasmesse dai telegiornali incombe il rischio di essere destinate presto agli archivi, sino alla prossima tragedia. Il tema della esasperazione della violenza bellica è stato appena sfiorato anche nelle manifestazioni delle università, che non sono andate al di là dell’immaginario ideologico della protesta anti-israeliana.

Eppure è ancora dalle università e dai giovani studenti che potrebbe essere rilanciata l’attenzione su questo insistente coinvolgimento della popolazione civile nei conflitti, un dato che non può assolutamente essere considerato inevitabile.

L’auspicio è che se ne parli presto in tutti i prossimi appuntamenti internazionali: ancora al G7 a guida italiana, ma soprattutto in un possibile evento di più ampia portata. Un primo step potrebbe essere il dibattito in una Assemblea Generale straordinaria delle Nazioni Unite, da cui potrebbe essere anche rilanciata l’idea di una Conferenza internazionale sulle Convenzioni di Ginevra.

Si tratterebbe in altri termini di fermarsi per riflettere, e di fare un passo indietro: occorrerebbe riproporre quel clima di condivisione universale che si realizzò su valori fondanti quando fu varata la prima Convenzione di Ginevra del 1864. Se si determinasse su queste iniziative una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica probabilmente i governi e le diplomazie saprebbero anche trovare le soluzioni.

Il segnale da Foreign Affairs

La necessità di una riflessione sul tema sembra emergere nel mondo accademico degli Usa. Sull’influente rivista Foreign Affairs, Oona A. Hathaway, docente di diritto internazionale alla Yale Law School, ha pubblicato due contributi dai titoli molto eloquenti: “Guerra senza limiti: Gaza, l’Ucraina e il crollo del diritto internazionale”, e “Non andare in guerra contro la Corte penale internazionale. L’America può aiutare Israele senza attaccare la Cpi”.

Hathaway in particolare ha esortato gli Stati Uniti a disciplinare con più rigore i principi di proporzionalità e di precauzione nel Law Of War Manual del Dipartimento della Difesa, e ha invitato gli Usa a riconoscere la Corte penale internazionale, con una argomentazione efficace: «Attaccare la Cpi dimostra che gli Usa sostengono la giustizia globale solo quando viene applicata ai loro avversari. Così facendo, suggerisce che l’impegno degli Stati Uniti per lo stato di diritto si estende solo fino a quando il loro nudo interesse personale a breve termine lo consente.

Non c’è modo più sicuro per erodere l’ordine giuridico globale». Il tema della escalation della violenza bellica nei conflitti armati e della sua regolamentazione è dunque diventato centrale: chiama anche a una precisa responsabilità la comunità internazionale.

Ripartire dai principi

Quanta importanza possa avere anche un risveglio morale della società civile in questi contesti può ricavarsi proprio dal moto originario da cui in maniera assolutamente inaspettata si sviluppò a metà ottocento il movimento internazionale sorto attorno alla nascita del diritto umanitario moderno.

Il 24 giugno 1859 il ginevrino Henri Dunant rimase colpito dall’eco dei combattimenti della battaglia di Solferino e San Martino, constatando in prima persona le devastazioni nelle case e nelle campagne, e soprattutto le agonie e le sofferenze dei feriti lasciati abbandonati sul campo, senza un soccorso sanitario adeguato. Dunant decise di pubblicare perciò il suo Souvenir di Solférino, una vibrata denuncia contro le atrocità delle guerre che portò un gruppo di filantropi, la Società Ginevrina di utilità pubblica, a una iniziativa che sembrò velleitaria: fu inviata una lettera a tutti i loro contatti influenti per convocare una Conferenza internazionale.

È così che si arrivò nel 1864 all’adozione della prima Convenzione di Ginevra per il miglioramento dei militari feriti in guerra che sanciva la nascita del Movimento internazionale della Croce Rossa. Da allora è seguito un processo di evoluzione del diritto internazionale umanitario, che dopo le due guerre mondiali e i conflitti della decolonizzazione è approdato alla Convenzione contro il genocidio del 1948 e alle Convenzioni di Ginevra del 1949, dove la tutela della popolazione civile è affermata in particolare dalla IV Convenzione e all’articolo 51 del Protocollo I del 1977.

Le condizioni fondamentali per la condotta della guerra prevedono dunque il «principio di distinzione» tra combattenti e popolazioni civili, nonché tra obiettivi militari e civili, e il divieto di attacchi «dai quali ci si può attendere che provochino incidentalmente morti e feriti tra la popolazione civile», o una «combinazione di perdite umane e di danni, che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto».

I principi del diritto internazionale umanitario erano intanto confluiti nel percorso delle Nazioni unite e dell’idea di giustizia penale internazionale sviluppatasi con i Tribunali di Norimberga e Tokyo, i Tribunali della ex Jugoslavia e del Ruanda, per poi arrivare alla storica Conferenza di Roma: il 17 luglio 1998 è stato approvato lo Statuto della Corte penale internazionale (Cpi), entrato in vigore nel 2002, che rappresenta oggi il più avanzato codice che individua le principali fattispecie dei crimini internazionali basandosi proprio sul principio fondamentale della tutela della popolazione civile: sono così individuati i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, e il genocidio.

Il sistema di tutela della Corte si basa fondamentalmente sui principi delle Convenzioni di Ginevra posti a garanzia della popolazione civile che ora trovano affermazione in quattro corollari espressi dalla nuova giurisdizione internazionale: 1) i crimini di guerra e contro l’umanità sono imprescrittibili; 2) i procedimenti possono essere "sospesi” ma non annullati, nemmeno di fronte alle responsabilità di Capi di Stato e di governo; 3) ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto della Corte opera la “responsabilità dei leader”, configurabile non solo nella emanazioni di ordini, ma anche nel mancato controllo sui sottoposti (i quali comunque non possono valersi dell’esimente di aver obbedito ad un ordine); 4) per la regola della complementarietà sono le giurisdizioni nazionali a dover perseguire i criminali di guerra e contro l’umanità, ma la Corte è chiamata ad intervenire sempre in caso di incapacità o mancanza di volontà (inability o unwillingness) degli stati.

Era scontato che un sistema così rigoroso e complesso trovasse difficoltà di attuazione: la Corte penale internazionale dell’Aja ad oggi è sostenuta da 124 Stati, ma vede ancora la mancata adesione di Russia, Cina e India, come anche di democrazie quali gli Stati Uniti e lo stesso Israele. Per l’affermazione dei principi del diritto internazionale si tratta dunque di un continuo work in progress, e purtroppo le cronache di questi giorni sulle difficoltà di far osservare le pronunce delle Corti internazionali dimostrano che occorre ripartire da una nuovo sistema di regole stavolta inequivocabilmente condiviso da parte della comunità degli stati.

Scelte fondamentali

Sulla base di queste esperienze assume dunque oggi un significato particolare un principio statuito dalle Convenzioni di Ginevra, richiamato con parole nette dal prosecutor della Corte penale internazionale Karim Khan: ogni stato ha il dovere di avvalersi di un esercito professionale assistito da giuristi militari e orientato da un sistema basato sul rispetto del diritto internazionale umanitario, per cui sarà sempre chiamato a dimostrare che «qualsiasi attacco è stato condotto in conformità con le leggi e le consuetudini dei conflitti armati», a cominciare dalla «corretta applicazione dei principi di distinzione, precauzione e proporzionalità».

Eccoci allora alla necessità di dare un senso alla indignazione per le stragi di civili di questi giorni: è fondamentale in questo momento sostenere con forza la tutela delle popolazioni civili irresponsabilmente coinvolte nei conflitti armati, in palese violazione di qualsiasi principio di diritto internazionale. È il caso di ripensare ai percorsi già compiuti, quando ad esempio si è giunti alla Risoluzione 377 A/1950 dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite Uniting for Peace: superando persino l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza si riuscì a imporre la cessazione della guerra di Corea.

Ed altrettanto utile è ripercorrere l’esperienza delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, convocando una nuova Conferenza Internazionale per l’affermazione del diritto internazionale umanitario e del ruolo della Corte penale internazionale. Questo è il percorso necessario, più concreto per ricondurre l’umanità su un percorso di pace, un progetto necessario anche per affrontare un’altra emergenza: il rischio della minaccia nucleare. Il futuro delle generazioni non può essere ancora compromesso da scelte irresponsabili di potenze revisioniste dell’ordine internazionale “basato sulle regole", su cui è bene che la comunità internazionale sia chiamata nuovamente a confrontarsi, e a decidere sulla base di regole e principi universali stavolta non più derogabili, in nome appunto di un «Diritto dell’Umanità».

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