250 milioni di persone sono a rischio. Non pesano solo le guerre, ma anche gli shock economici ed ecologici. Il paradosso dell’Africa: il continente che potrebbe nutrire il pianeta rimane bloccato al livello della sussistenza
Il rapporto mondiale 2023 sulle crisi alimentari indica tre cause principali di rischio per la sicurezza alimentare: conflitti, shock economici e condizioni meteorologiche estreme (inondazioni, siccità ecc.). Secondo i dati queste tre cause condannano rispettivamente più di 117 milioni, 84 milioni, e più di 56 milioni di persone alla «insicurezza alimentare acuta».
La guerra in Ucraina ha dato il colpo di grazia a una situazione divenuta già critica a causa della crisi finanziaria del 2008 e dell’instabilità ecologica globale. Russia e Ucraina contavano assieme per il 30 per cento della produzione di grano mondiale, del 20 per cento del mais e dell’80 per cento dell’olio di semi. I paesi arabi, l’Europa, ma anche l’Africa o il Brasile dipendevano da loro. La guerra in corso da due anni ha reso il mercato dei cereali imprevedibile e ha imposto una forte pressione sui prezzi. Secondo l’Onu sono a rischio endemico di fame o carestia più di 40 paesi – africani o meno sviluppati – che importavano almeno un terzo del loro grano dall’Ucraina e dalla Russia, dei quali almeno 18 fino al 50 per cento.
Per ora non si è creata una crisi acuta, malgrado l’effetto negativo sui prezzi. Occorre stare attenti anche ad altri conflitti che provocano crisi più localizzate, come ad esempio la guerra interna sudanese e la crisi etiopica. Assistiamo al deteriorarsi della sicurezza alimentare in questi due grandi stati africani a causa di crisi politiche complesse che non hanno ancora trovato soluzione. Il Sudan in particolare è devastato dai combattimenti, e la popolazione di città grandi, come nel caso della stessa capitale Khartoum, rischia la fame anche per la mancanza dei trasporti e degli approvvigionamenti assieme alla chiusura dei mercati.
La lezione che si può dedurre da tali instabilità e crisi violente è che quando lo stato implode e si frantuma la vita delle persone è posta a serio rischio, iniziando con la mancanza di acqua pulita e cibo. In Libia, Siria, nel Sahel, assistiamo a situazioni simili, dove la stessa distribuzione umanitaria di alimentari è diventata difficile, per non parlare della tragedia di Gaza dove manca tutto.
Strategia di accaparramento
Tali emergenze legate alla fame a causa delle guerre devono essere affrontate rapidamente prima che si trasformino in minacce su larga scala. A fine 2022 i conflitti e le transizioni post conflitto avevano già fatto raggiungere livelli record di insicurezza alimentare generalizzata: fino a 350 milioni di persone in 79 paesi (Somalia, Afghanistan, Etiopia, Haiti, Sudan e Sud Sudan, Yemen, Siria, Sahel, Myanmar, ecc.) si trovavano e si trovano ancora oggi a inizio 2024 ad affrontare livelli critici di fame, carestia o condizioni precarie. Esiste anche un aspetto multilaterale della crisi alimentare da segnalare: le agenzie dell’Onu (come il Pam e l’Undp ad esempio, ma anche il Cicr e non solo) hanno difficoltà a reperire e acquistare le derrate alimentari necessarie ai loro interventi, a causa della scarsità o dei prezzi troppo alti.
La policrisi connette le conseguenze delle guerre con quelle delle crisi climatiche (diminuzione della produzione in alcuni paesi) e degli effetti lunghi della pandemia (serrate logistiche o strozzature e ingolfamento dei porti): tutto ciò pesa sui costi o sulla produzione degli alimenti (come i cereali).
Da non sottovalutare anche la strategia di accaparramento messa in atto da parte di alcuni paesi. Le guerre sono intrinsecamente violente e dannose, ma una cattiva o ineguale distribuzione delle risorse a volte può creare danni ancor più catastrofici perché di lunga durata. Come osserviamo in Ucraina, ma anche nel Sahel, a Gaza o in Sudan, le parti in conflitto possono saccheggiare le riserve alimentari degli avversari, distruggendo deliberatamente fattorie, bestiame e infrastrutture civili. Soprattutto le guerre rendono inabitabili e inagibili (a causa dell’inquinamento provocato dalle armi) intere aree nelle quali non è più possibile produrre, come accade in Ucraina ma anche altrove.
Tali situazioni provocano lo sfollamento di un gran numero di persone, tagliandole fuori dalle loro risorse alimentari e dai mezzi di sussistenza e costringendo la comunità umanitaria internazionale a sforzi giganteschi per rispondere alle impellenti necessità. La gran parte di tali profughi e sfollati (Idp) è composta da donne, le quali rappresentano anche la maggior parte della forza lavoro agricola in Africa e in Medio Oriente: la loro assenza dalle coltivazioni ha effetti devastanti.
La connessione tra crisi politica e crisi dei rifugiati ha conseguenze pesanti su alcuni paesi: si pensi ad esempio alla situazione del Libano attanagliato dalla crisi economica e dall’instabilità interna a cui si aggiunge il peso di circa 2 milioni di profughi siriani fuggiti dal 2011.
Aiuti umanitari
Molte altre zone di conflitto o post conflitto hanno un disperato bisogno di aiuti umanitari duraturi nel tempo, come l’Afghanistan, ma le operazioni di soccorso risultano quasi impossibili perché non è consentito raggiungere le popolazioni nel bisogno. In alcuni casi, come in Sudan, alcune operazioni umanitarie per sfollare persone in difficoltà sono state attaccate dalle parti belligeranti.
Infine c’è da segnalare il lato “silenzioso” dell’attuale crisi alimentare in Africa: quello che riguarda l’impennata dei prezzi dell’energia che ha ridotto a zero le capacità di spesa di alcuni paesi e la loro fornitura in valuta pregiata, indispensabile per operare sul mercato internazionale. È ad esempio il caso attuale del Malawi, dove non si trova più la divisa necessaria a comprare cibo e i presidi sanitari essenziali.
Nonostante il continente abbia le più grandi riserve di terra coltivabile non sfruttata del pianeta (200 milioni di ettari, escluse le foreste), la sua produzione agricola rimane insufficiente. L’Africa potrebbe produrre da sé molti più prodotti e tutta la quantità necessaria di fertilizzanti che occorrono per l’allevamento, invece di affidarsi alle importazioni.
L’aumento dei prezzi sta progressivamente facendo lievitare i costi, non in maniera violenta come ci si aspettava, ma sicuramente in modo da mandare in rovina agricoltori e allevatori. Così si assiste a un paradosso: il continente che potrebbe nutrire il pianeta rimane bloccato al livello di sussistenza alimentare. Molte voci si stanno levando in favore di un piano continentale di resilienza agricola, ma l’Unione africana è lenta a reagire.
Se le prossime stagioni agrarie saranno compromesse, i rischi per la sicurezza alimentare del continente raddoppieranno. In Africa non si trasforma ancora quasi nulla della produzione agricola locale: si esporta per reimportare con un aggravio di prezzi evidente. La rinnovata crisi del debito, l’inflazione e la penuria alimentare potrebbero provocare gravi disordini sociali in regioni già destabilizzate dalle tensioni politiche. In un contesto economico complesso, la dipendenza produttiva diviene un’estrema vulnerabilità, svelando le carenze strutturali del continente. È su tale tema che occorre intervenire mediante una nuova programmazione congiunta.
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