Soltanto i prossimi mesi ci diranno se l’incontro di ieri hanno partorito un semplice accordo per non farsi del male di qui alle prossime elezioni americane (dopo le quali la Cina potrebbe ritrovarsi con un avversario molto diverso da Biden), oppure se Biden e Xi saranno riusciti a mettere in piedi una serie di meccanismi per favorire una vera e propria distensione
Nella residenza dove negli anni Ottanta fu girata la telenovela Dynasty, Joe Biden e Xi Jinping hanno scoperto le carte all’inizio del faccia a faccia tra le delegazioni statunitense e cinese che ieri si sono confrontate per circa quattro ore, a margine del vertice della Asia-Pacific Economic Coopertion di San Francisco. Biden - che dopo il flop della controffensiva ucraina ha assistito all’esplosione della crisi di Gaza - ha affermato che «è fondamentale che tu e io ci comprendiamo chiaramente, da leader a leader. Dobbiamo garantire che la concorrenza non si trasformi in conflitto».
Una terza crisi internazionale, magari su Taiwan, sarebbe davvero troppo per un ottantenne impegnato a riportare il lavoro negli Usa e nella sua ricandidatura. Xi invece è alle prese col suo tallone d’Achille: l’economia cinese rallenta e nell’ultimo trimestre, per la prima volta da 25 anni, ha attirato meno investimenti di quanti ne ha fatti all’estero. Il suo messaggio a Biden è stato che «le catene industriali e di fornitura sono ancora sotto la minaccia di interruzione e il protezionismo è in aumento. Tutti questi sono problemi gravi».
Un percorso lungo
Secondo fonti Usa il dialogo tra i due presidenti accompagnati dai ministri più importanti è stato molto “diretto”, con Xi che ha accusato gli Usa di diffondere retorica contro il partito comunista e di perseguire un “contenimento tecnologico” della Cina. Una conferma che, al netto delle intese raggiunte ieri, sulle questioni più divisive quello del dialogo Cina-Usa rimane un percorso lungo e in salita. L’incontro di ieri - la prima volta di Xi negli Usa dopo il vertice con Trump del 2017 a Mar-a-Lago - del resto non era stato certo organizzato per porre fine a quella che per non pochi e ininfluenti policymakers e accademici negli Stati Uniti e soltanto un po’ di meno in Cina è una nuova Guerra fredda.
Intanto però non si può che accogliere positivamente l’accordo ufficializzato da Xi e Biden per riavviare il dialogo tra i rispettivi vertici militari, sospeso da Pechino dopo la visita a Taiwan di Nancy Pelosi dell’agosto 2022. Servirà soprattutto a prevenire collisioni aeree e navali più volte sfiorate negli ultimi mesi in un Pacifico occidentale ormai militarizzato.
Gli Stati Uniti hanno chiesto una mano alla Cina nell’assistenza umanitaria a Gaza e nella difesa di Israele, perché - ha spiegato il portavoce della Casa bianca, John Kirby - Pechino «ha in Medio Oriente canali di comunicazione che in qualche mondo a noi mancano». Wang Yi, il ministro degli esteri seduto accanto a Xi, ha rivelato durante la discussione tra le due delegazioni che il suo paese ha già interceduto presso il regime iraniano, per impedire che Tehran intervenga con i suoi proxy regionali contro Israele.
Dopo gli ultimi 12 mesi durante i quali Biden ha calcato la mano sul sostegno militare e politico a Taipei e sull’embargo hi-tech contro Pechino, Xi ha accettato, dopo una serie di esitazioni, di incontrare Biden, convinto di vantare un consistente credito nei confronti degli americani. E così il presidente Usa ha dovuto rassicurarlo che non vi è alcun cambiamento nella politica (che per i cinesi è un principio) “Una sola Cina”, che Washington non sostiene l’indipendenza di Taiwan.
Notizie da Taipei
Gli scambi di battute tra i due leader sulla questione taiwanese sono stati definiti come “sostanziali” secondo fonti Usa. Mentre Biden ha dichiarato di aver semplicemente detto a Xi che la posizione Usa non è cambiata: dunque rispetto di “Una sola Cina” (nonostante gli annunci di forniture militari Usa sempre più massicce a Taiwan e le gaffe dell’inquilino della Casa bianca sull’indipendenza di Taiwan).
Ma proprio mentre i due capi di stato s’incontravano a San Francisco, la novità più interessante arrivava da Taipei, dove è stato raggiunto un clamoroso accordo tra i nazionalisti del Kuomintang e il Partito del popolo, che domani dovrebbero presentare un candidato comune alle presidenziali di gennaio: le due formazioni, favorevoli al dialogo con Pechino, a questo punto hanno ottime chances di sostituire al governo gli “indipendentisti” del Partito progressista democratico, decisamente più legati a Washington.
Una serie di misure per favorire il dialogo, come l’istituzione di un gruppo di lavoro congiunto per contrastare la produzione di Fentanyl, l’oppiode fabbricato negli Usa con componenti farmaceutiche esportate dalla Cina che fa strage anche nelle strade di San Francisco (ripulite per l’occasione dalla povera, imbarazzante presenza di tossicodipendenti e senza tetto accampati nell’area del summit Apec) e di un dialogo intergovernativo per bandire l’applicazione dell’intelligenza artificiale alle armi senza pilota, a cominciare dai droni. Verranno inoltre aumentati i voli tra i due paesi e favoriti gli scambi accademici e tra popoli, pesantemente ridimensionati dalla pandemia e dalle tensioni geopolitiche.
Più che i singoli accordi, che certamente possono contribuire a raffreddare la tensione e a migliorare i rapporti bilaterali tra la potenza egemone e quella in ascesa, colpisce la franchezza con la quale il presidente cinese ha espresso al suo omologo statunitense quello che - secondo la sua agenda del “grandioso risveglio della nazione cinese” - è il nocciolo del problema. «La Cina non ha intenzione di superare o spodestare gli Stati Uniti - ha sostenuto Xi -, e gli Stati Uniti non dovrebbero tramare per sopprimere o contenere la Cina». Il presidente ha sottolineato che «la Cina ha interessi che devono essere salvaguardati, princìpi che devono essere difesi e linee di fondo che devono essere rispettate».
Collaborazione e rivalità
I gruppi di lavoro congiunti istituiti per affrontare questioni economiche, finanziarie e commercio, l’annuncio della ripresa del lavoro comune per contrastare il cambiamento climatico, come gli accordi miliardari sottoscritti nei giorni scorsi dagli esportatori di materie prime alimentari Usa con le compagnie di stato cinesi sono tutti passaggi che vanno nella direzione di un miglioramento delle relazioni bilaterali. Che tuttavia non cambiano il problema di fondo, che è quello della rivalità strategica tra Cina e Stati Uniti, che si esprime attraverso alleanze, di fatto e di diritto, contrapposte, la loro competizione hi-tech, e quella per l’egemonia sull’Asia-Pacifico.
In definitiva, soltanto i prossimi mesi ci diranno se l’incontro di ieri hanno partorito un semplice accordo per non farsi del male di qui alle prossime elezioni americane (dopo le quali la Cina potrebbe ritrovarsi con un avversario molto diverso da Biden), oppure se Biden e Xi saranno riusciti a mettere in piedi una serie di meccanismi per favorire una vera e propria distensione nella relazione bilaterale che Xi ha definito «la più importante del mondo».
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