Da oltre un anno compagnie militari private operano a fianco dell'esercito della Repubblica democratica del Congo (RDC) nella tormentata provincia del Nord Kivu. Per contrastare i ribelli del movimento M23, sostenuti dal Ruanda, ora ci sono la compagnia militare privata Agemira, registrata in Bulgaria, gestita da un imprenditore francese e – secondo fonti di Africa Report - guidata sul terreno da un mercenario romeno di grande esperienza che ha già operato in Qatar, Centrafrica, Costa d'Avorio, Senegal, Burkina Faso, Niger e Sierra Leone.

Prima del Congo la medesima società di contractor è stata in Mali almeno fino al golpe del 2021. In Congo ora si occupa degli aerei e degli elicotteri militari della RDC e sta riabilitando gli aeroporti di Bukavu (Kavumu) e Beni. Kinshasa ha anche reclutato istruttori militari per addestrare le proprie truppe regolari, assoldati dalla società Congo Protection dalle derivazioni oscure.

Sta di fatto che a Goma, capitale provinciale, si vedono ora parecchi mercenari romeni, europei e di altra origine, aumentati da quando ai caschi blu dell’Onu è stato chiesto di ritirarsi. Il numero degli “istruttori” pare salito a oltre 1000, tra cui molti ex agenti di polizia romeni.

 L'aeroporto di Kavumu, in fase di ristrutturazione, dovrebbe presto diventare la base per droni da combattimento cinesi tanto che qualcuno denuncia anche la presenza di addestratori da Pechino, alcuni dei quali basati in modo permanente a Kinshasa. Inizialmente le autorità congolesi sembravano aver optato per i droni turchi ma poi i cinesi hanno avuto la meglio, forse perché meno cari e dotati di connessione satellitare.

La presenza dei contractor pare aver frenato l’avanzata dell’M23 e, secondo alcune fonti, addirittura evitato la caduta della stessa Goma. Altre testimonianze smentiscono tale ruolo attribuito ai mercenari.

La città strategica di Sake, persa e ripresa più volte, ora è quasi deserta mentre prima dell’attuale fase di conflitto contava circa 20.000 abitanti. Dal canto suo l’M23 si è trincerato sulle colline di Masisi che la circondano, sottoponendola ad un continuo fuoco di cecchini. Goma è vicina, a soli 25 chilometri. Da quasi due anni i ribelli controllano il territorio che va da Masisi a Rutshuru e Nyiragongo e minacciano il capoluogo.

La storia si ripete

La storia tra il Congo e i mercenari è lunga ed inizia durante i difficili anni dell’indipendenza, tra il 1960 e il 1965. Tutti coloro che tentarono di impedirla o di limitarne l’estensione (come con il Kasai, il Katanga ecc.) utilizzarono soldati di ventura europei. A quell’epoca si trattava spesso di belgi e francesi, chiamati “barbouzes”, cioè mercenari.

Oggi si chiamano molto più pudicamente contractors, cioè agenti sotto contratto di società private, ma si tratta della medesima cosa. Per dare un’idea del costo di tali militari privati, la differenza tra la paga del soldato congolese e quella del contractor è di 100 dollari al mese contro 5.000. Per questo –com’è attualmente il caso in Kivu- spesso ci sono gelosie, malumori, ritardi di pagamento e tensioni, evidenziando la fragilità del sistema.

L’Onu possiede truppe in RDC da almeno due decenni -la MONUSCO- che si stanno gradualmente ritirando, anche se mantiene dei contingenti in talune posizioni. Tuttavia i caschi blu non possono in alcun modo cooperare con i mercenari, cosa vietata dai regolamenti internazionali. Di conseguenza la compresenza tra i due tipi di forze armate è impossibile e crea imbarazzi.

In area ci sono ancora il contingente burundese, di circa 2.000 soldati, relativamente autonomo e quasi tutto concentrato in Sud Kivu, lontano dalla zone calda. Per quanto riguarda i soldati della regionale dell’Africa australe (SADC), si è ancora in attesa dei finanziamenti dai quali dipendono la logistica e le regole di ingaggio. L’avanguardia di tali forze è per ora concentrata a Goma.

Ciò che emerge da questo quadro è la privatizzazione della guerra. Come tanti altri settori dell’economia, anche il conflitto (assieme alle prerogative della violenza legittima) è andato simultaneamente globalizzandosi e privatizzandosi, diventando un nuovo terreno di intervento del mercato, tanto che alcuni stati offrono a pagamento il servizio delle proprie forze armate ufficiali.

Nella storia contemporanea sono spesso esistiti tentativi sussidiari di gestione della violenza, come appunto i mercenari o le compagnie di sicurezza, chiamati a svolgere intervenuti in sostituzione degli Stati, come proteggere un campo di rifugiati o l’attività di una ONG, mantenere l’ordine laddove le istituzioni nazionali avevano fallito, securizzare un campo petrolifero o una zona mineraria, fare operazioni di intelligence ecc.

Si trattava in genere di fenomeni temporanei rapidamente riassorbiti, oppure di violenza inconfessabile e coperta. Ora non più: un numero sempre maggiore di stati si affida ufficialmente -e per tempi medio lunghi- a servizi militari privati.

Governi impotenti

La pratica è stata sdoganata innanzi tutto dalle grandi potenze come gli Stati Uniti durante le guerre del Golfo e specialmente in Iraq, quando Washington cercava di diminuire il numero delle perdite ufficiali e demandava parti di operazioni ad aziende private (contractors appunto). Anche la Russia utilizza tale modello come si è visto con la Wagner e i suoi simili.

L’effetto immediato di tale scelta è stata la moltiplicazione delle milizie private in tutti gli scenari di conflitto: una crescita esponenziale che sta mutando il volto stesso della guerra. Milizie condotte da «signori della guerra» sono già esistite in passato come strumenti per prendere il potere.

Oggi l’obiettivo di tali gruppi è vendersi al miglior offerente, offrire servizi di protezione o impossessarsi di risorse locali.

In tale scenario possono crearsi situazioni confuse o ibride, laddove non è più chiaro se si ha a che fare con un gruppo armato che lavora per uno Stato, per una etnia o un clan, per sé stesso, per un’idea o ideologia, per una potenza esterna o un gruppo terrorista ecc. La guerra privatizzata diviene indecifrabile e produce fenomeni abnormi.

Ad esempio i foreign fighters o il diffondersi di gruppi jihadisti in terre dove non c’è mai stata presenza islamica dimostra quanto la violenza possa diventare un prodotto commercializzabile ed esportabile.

È sufficiente cioè che vi sia una domanda perché si crei un’offerta, complice il marketing della propaganda. Sempre più spesso si assiste anche alla mutazione dell’identità stessa dei raggruppamenti armati, che può variare dal terrorismo al provider di sicurezza.

La guerra diviene un business e si può apprendere a “vivere di guerra” soprattutto laddove la proliferazione delle milizie è esponenziale come in Congo. In tale mondo ibrido c’è di tutto: milizie di autodifesa (di città, quartiere, villaggio ecc.); gang criminali che partecipano a un conflitto; contractors; agenzie di sicurezza private; vigilantes; paramilitari; militari ufficiali a pagamento, gruppi armati tribali; forze di sicurezza; cittadini organizzati…. Ognuno di questi attori della violenza privata ha un’unica agenda: sopravvivere. In tale caos gli sforzi dell’Onu e dei governi non riescono ad incidere: la privatizzazione della guerra cambia il nostro mondo.

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