La cosiddetta “economia a bassa quota” è uno dei nuovi motori di crescita sui quali la Cina punta per continuare a sostenere nei prossimi anni il suo prodotto interno lordo. E così i droni registrati nel primo semestre di quest’anno sono aumentati del 48 per cento: 608.000 velivoli senza pilota (Uav) immatricolati tra gennaio e giugno, per un totale di 1,87 milioni in circolazione. DJI, la compagnia leader nella produzione di Uav è sotto sanzioni Usa dal 2020, ma può contare sull’espansione del mercato interno (oltre che sulla domanda di quelli internazionali).

A Pechino sono passati già alla fase dello studio e dell’applicazione delle norme e della logistica per regolare questo traffico che si muove al di sotto dei mille metri d’altezza, utilizzato finora soprattutto in agricoltura, per le consegne e nella risposta ai disastri naturali.

Settori strategici

Quello degli Uav made in China (puniti da Washington per il ruolo che avrebbero svolto nel controllo delle minoranze musulmane nella regione del Xinjiang) è solo uno dei tanti settori che stanno proliferando nonostante o, forse, sarebbe meglio dire grazie all’embargo hi-tech statunitense. Sì, perché in una serie di settori strategici le restrizioni Usa hanno avuto l’effetto indesiderato di accelerare la spinta delle politiche industriali di Pechino in direzione della cosiddetta “innovazione autoctona”.

Il resto l’hanno fatto la domanda interna e un mondo più multipolare che in passato, dove chiuderle le porte degli States può avere sulla Cina i contraccolpi che avrebbe causato dieci anni fa. Basta guardare all’esempio dei veicoli elettrici, con la Cina che ha risposto ai super dazi a stelle e strisce e a quelli europei reindirizzando esportazioni e investimenti greenfield verso il sud-est asiatico, l’America latina, la Russia, il Medio Oriente.

In effetti negli Stati Uniti il dubbio che i divieti hi-tech contro la Cina perseguiti dalle ultime due amministrazioni siano inefficaci e possano essere addirittura controproducenti inizia a serpeggiare. Qualche giorno fa la presidente della National Academy of Sciences ha lanciato l’allarme per quelle che ha definito «tendenze molto preoccupanti». Marcia McNutt ha ricordato che gli Usa (806 miliardi di dollari nel 2021) spendono di più in ricerca e sviluppo (R&D), ma non ci vorrà molto perché la Cina (668 miliardi di dollari nel 2021) li superi.

Inoltre, ha aggiunto McNutt, in questo momento «non potremmo coprire i nostri posti di lavoro STEM se non fosse per questi studenti stranieri che arrivano e soggiornano negli Stati Uniti. Ma gli studenti internazionali hanno così tante scelte (tra cui la Cina, ndr) e noi non siamo più una destinazione privilegiata».

Leader nell’innovazione

Il Global Innovation Index 2023 ha situato la Cina al dodicesimo posto tra le 132 economie esaminate. Secondo il rapporto stilato dalla World Intellectual Property Organization, la Cina è leader globale nell’innovazione: ottava per quanto riguarda gli output, venticinquesima per gli input, prima nel gruppo delle 33 economie a reddito medio-alto, terza tra le 16 del raggruppamento Asia orientale-Sudest asiatico-Oceania.

In particolare, il Gii 2023 riconosce alla Cina una elevata capacità (sesta al mondo) nel tradurre efficacemente gli investimenti in innovazione in risultati (output) di innovazione. Tra le sette aree-parametri del Gii le due nelle quali la Cina performa peggio solo le istituzioni (43esima), ovvero il contesto istituzionale-normativo-economico, e l’infrastruttura (27esima), cioè l’infrastruttura generale e la sostenibilità ambientale.

Piuttosto che provare a rallentare l’ascesa hi-tech della Cina con l’embargo, probabilmente sarebbe stato più razionale tentare di controllarla, mantenendo la cooperazione tra la prima e la seconda economia del pianeta. Allo stato attuale il rischio per gli Usa è di rimanere spiazzati di fronte ai progressi della Cina.

Tra gli effetti più controversi della strategia di Washington ci sono quelli del CHIPS and Science Act varato due anni fa dall’amministrazione Biden. A causa di quella legge per Pechino è diventato più complicato procurarsi i processori più avanzati, nonché i macchinari per fabbricarli.

Tuttavia le compagnie cinesi sono state spinte a espandere la capacità produttiva dei cosiddetti “legacy chips”, ovvero quelli fabbricati utilizzando processi a 28 nanometri o più, che rappresentano circa il 70 per cento del mercato globale e che vengono massicciamente utilizzati nei settori dell’automotive e dell’elettronica da consumo, essendo più sicuri ed efficienti da un punto di vista energetico.

Chip “vecchi” ma buoni

Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica (Nbs), nel primo trimestre 2024 la produzione di circuiti integrati in Cina (98,1 miliardi di unità) è aumentata del 40 per cento su base annua, un segnale dell’impennata nella produzione di microchip “maturi”. Secondo la compagnia taiwanese di ricerche di mercato TrendForce, la quota del mercato globale appannaggio dei “legacy chips” fabbricati in Cina salirà dal 31 per cento del 2023 al 39 per cento nel 2027.

Il 24 maggio 2024 Pechino ha messo in campo la terza tranche (344 miliardi di RMB, 47,5 miliardi di USD) del China Integrated Circuit Industry Investment Fund, noto come “Big Fund”, controllato dal ministero delle finanze e dalle principali banche di stato. Uno dei principali obiettivi del fondo sarà finanziare la produzione in Cina di macchinari per produrre microchip. I passi avanti nel campo dei circuiti integrati e dei macchinari per produrre “legacy chips” segnalano quanto la Rpc sia vicina all’obiettivo dell’autosufficienza e del completo controllo di intere filiere industriali, come quelle delle auto elettriche e dell’energia pulita, per i quali i “legacy chips” rappresentano una tecnologia chiave.

Nel campo dei veicoli elettrici si registra uno dei maggiori fallimenti del “contenimento” hi-tech. Il sogno di Elon Musk di una macchina a batteria “per le masse” lo sta in realtà realizzando la rivale cinese BYD, che è in grado di produrla a costi di gran lunga inferiori rispetto a Tesla, e che sta aprendo stabilimenti in Europa, Turchia, Sud-est asiatico, America latina. Compreremo Ev cinesi, mentre gli Usa si sono arroccati nella difesa dei motori a combustione interna.

Domanda fiacca

Con il terzo plenum del partito comunista che si apre lunedì, la Cina svelerà le strategie di medio periodo per lo sviluppo dei suoi settori hi-tech e delle cosiddette “nuove forze produttive di qualità”. Mentre il paese ostenta i suoi progressi tecnologici, permane il problema di una domanda interna – che, secondo la “doppia circolazione”, avrebbe dovuto compensare la riduzione della dipendenza dall’export – che resta nel complesso insoddisfacente. Qualche giorno fa Wang Huning ha ribadito la centralità di questa strategia, che verrà riproposta dalla sessione plenaria del comitato centrale dedicata all’elaborazione delle strategie economiche. «Rendere più fluida la circolazione interna è una scelta strategica per rilanciare la crescita economica», ha dichiarato il numero quattro del Partito comunista cinese.

Secondo Arthur Kroeber «fondamentalmente tutte le politiche degli ultimi cinque o sei anni si sono concentrate sull’aumento della regolamentazione nel settore finanziario e in quello di internet; e più recentemente nel settore immobiliare. Tutte queste aree erano viste come aree di rischio create da una mercatizzazione incontrollata.

Quindi ora il punto di vista del governo è che abbiamo mantenuto questa politica anti-rischio, ma poi dobbiamo anche promuovere nuove fonti di crescita, soprattutto dopo che hanno avuto questo grande giro di vite sul settore immobiliare, che rappresenta circa un quarto della l’economia».

In una lunga intervista a South China Morning Post Kroeber – uno degli studiosi più autorevoli dell’economia cinese – ha confermato che la Cina «ha bisogno di un altro motore di crescita. L’idea di nuove forze produttive è fondamentalmente quella di mobilitare ingenti investimenti tecnologici per stimolare la crescita della produttività in futuro».

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