Intervista a Yassir Arman, uno dei leader delle Forze di libertà e cambiamento sudanesi, una coalizione di gruppi politici e civili che nel 2019 ha fatto cadere il presidente Bashir: «Dobbiamo continuare il nostro lavoro. Imparare dagli errori del passato e far diventare il Sudan uno stato democratico»
Yassir Arman, capo del partito politico Movimento di liberazione del popolo del Sudan-Nord e uno dei leader di “Takaddum”, un coordinamento di gruppi politici, civili, e sindacati, è a Roma per mettere i riflettori su “una guerra dimenticata”. Dall’aprile 2023, in Sudan si fronteggiano l’esercito regolare guidato dal presidente del Consiglio sovrano di transizione al-Burhan e le Forze di sostegno rapido (RSF) che rispondono all’ex vice di al-Burhan, il generale Mohamad Hamdan Dagalo, noto come Hemedti. Nel giro di dieci mesi, la guerra ha provocato 8 milioni di rifugiati e sfollati, 20 milioni di persone che soffrono la fame e ha distrutto il tessuto sociale.
Nel 2019, grazie a una mobilitazione spettacolare del popolo sudanese, Omar al-Bashir è stato deposto dopo trent’anni al potere. L’annuncio di volersi candidare a un terzo mandato e l’aumento dei prezzi del cibo aveva spinto centinaia di organizzazioni civiche e politiche a riunirsi e resistere, in maniera non-violenta, al potere. C’era speranza. Oggi invece il Sudan rischia di implodere. Cosa è andato storto?
Dopo la caduta di Bashir, le fazioni civili e militari avevano accettato di condividere il potere in una transizione di tre anni con elezioni previste per il 2023. Ma nel 2021, l’esercito ha ripreso il potere attraverso un colpo di stato che ha poi portato alla guerra che stiamo vivendo oggi. Ciò è successo per vari motivi. Primo, il vecchio sistema di al Bashir, dominato dagli islamisti, è riuscito a restare nei gangli del potere sabotando la transizione. Secondo, la comunità regionale e internazionale si è impegnata nel sostenere la transizione. E noi, in qualità di forze democratiche, non siamo stati in grado di restare uniti. Tutto questo in un contesto in cui le condizioni economiche, soprattutto nelle campagne, erano peggiorate enormemente cosa che ha spinto, soprattutto i giovani, a formare delle milizie.
Lo scorso aprile è scoppiata la guerra tra Burhan e Hemedti. Fino a poco tempo prima erano molto vicini. Cosa è successo?
Nell’ottobre 2021, Burhan e Hemedti hanno fatto un colpo di Stato insieme e nel processo di transizione non si sono messi d’accordo sulla condivisione del potere. Gli islamisti, che erano dietro Buhran, lo hanno spinto a entrare in guerra credendo che sarebbe stato una sorta di “pic-nic” e che nel giro di qualche settimana sarebbe finito tutto perché loro hanno le forze aeree, l’artiglieria, i carri armati. La guerra però è anche il prodotto del progetto islamista di Bashir di fermare la rivoluzione del 2019. L’obiettivo era quindi di prendere due piccioni con una fava: indebolire in un colpo solo Hemedti e le forze democratiche.
Parla molto della responsabilità degli islamisti senza però parlare di quello che hanno commesso gli RSF di Hemedti – soprattutto in Darfour.
Anche Hemedti è un prodotto degli islamisti. Sono loro che hanno creato diversi eserciti per sopprimere la resistenza nelle aree rurali solo che poi RSF è diventato un esercito a sé stante. Le cause strutturali della guerra sono radicate nella composizione politica del Sudan, un paese estremamente eterogeneo. Prima che il Sud Sudan diventasse indipendente nel 2011, il Sudan era composto da 570 tribù e si contavano 130 lingue. Ma l’unità del paese non è stata costruita su questa diversità né tantomeno su un tipo di cittadinanza dove tutti avevano uguali diritti. Inoltre, per tre decenni gli islamisti hanno governato il paese e l’esercito non è mai stato un esercito professionale.
Negli ultimi mesi RSF è avanzato enormemente. È possibile una loro vittoria militare?
No, questa è una crisi politica. Non ci possono essere accordi militari duraturi. Bisogna cambiare direzione. L’unica risposta è accettare di dare potere ai civili. RSF dice di voler la democrazia e ridare potere ai civili, ma noi non siamo con nessuno. Abbiamo una storia molto più lunga di loro – alcuni dei partiti di Takaddum hanno 70 anni. Siamo però anche consapevoli che Burhan e RSF sono una realtà de facto. Ci dobbiamo avere a che fare, ma lo faremo a nostro modo.
Ci sono state diverse iniziative di mediazione in questi mesi senza però vedere nessun risultato tangibile.
Da un parte non c’è la volontà politica da parte di Hemedti e Burhan di trovare un accordo. Entrambe credono in una possibile vittoria militare. Dall’altra non c’è nessuna coerenza tra le azioni a livello regionale e quelle della comunità internazionale. Abbiamo bisogno che tutti gli attori che provano a mediare – Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati, Libia, Egitto, Ciad, organizzazioni regionali – lavorino insieme. C’è bisogno dei partner africani, arabi e della comunità internazionale, anche dell’Ue, soprattutto per via delle divisioni che ci sono all’interno del Consiglio di Sicurezza.
Gli attori regionali che dovrebbero mediare come Arabia Saudita, Emirati, Egitto, sembrano schierati con l’una o l’altra parte però.
È vero, non c’è unità. Ma bisogna comunque fare in fretta. Il Sudan va dal Corno d’Africa al Sahel: se crolla ci sarà terrorismo, immigrazione. Oggi la guerra ha provocato il più alto numero di sfollati al mondo. È un disastro. La comunità internazionale, soprattutto l’Europa, deve capirlo: andranno in Libia, Egitto e poi in Europa.
All’inizio ha detto che uno dei motivi del fallimento della rivoluzione è che voi, forze democratiche, non eravate unite. Cosa è cambiato?
La buona notizia è che Takaddum presto organizzerà una conferenza dove parteciperanno 600 delegati provenienti dal Sudan e dalla diaspora. Eleggeremo una nuova leadership con due obiettivi: capire come fermare la guerra, ovvero come arrivare ad un cessate il fuoco, e poi come costruire una pace duratura per un nuovo Sudan che abbia un esercito professionale, che rappresenti tutte le sue diversità e che sia aperto ad avere buone relazioni con la regione e la comunità internazionale.
In qualità di rappresentante del coordinamento, è venuto in Italia per dire cosa?
Che abbiamo bisogno del sostegno delle forze democratiche globali. Siamo in contatto sia con Buhran che Hemedti. Hemedti ci ha incontrato e ci siamo messi d’accordo su tre proposte: come proteggere i civili, inviare aiuti umanitari e fermare l’abuso dei diritti umani; come individuare le basi per arrivare a una soluzione civile e democratica; come creare un meccanismo che protegga i civili . Vogliamo fare la stessa cosa con Burhan, ma non lo abbiamo ancora incontrato. Alcuni paesi della regione stanno cercando di mediare tra noi e lui. Siamo pronti ad incontrarlo dove vuole, ma per ora non può: gli islamisti vogliono mettere da parte i civili.
Avete già un programma?
Sì, ce lo abbiamo e si concentra su attività economiche e esercito. Così possiamo costruire un nuovo stato, che sia in grado di concludere la transizione che avevamo avviato nel 2019.
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