- Per la Libia il 2021 è stato un anno caratterizzato da diversi avvenimenti che hanno decretato il fallimento della transizione politica inaugurata dal premier Abdel Hamid Mohammed Dbeibah con l’avvallo delle Nazioni unite.
- Ma è stato anche un anno caratterizzato dalla “telenovela” sulle candidature: dal ritorno del figlio di Gheddafi alla scesa in campo del premier Dbeibah che in realtà aveva solo un mandato di dodici mesi. Senza contare la candidatura del generale della Cirenaica, Khalifa Haftar, e del parlamento di Tobruk.
- Nonostante i leader politici, il potere reale è detenuto soprattutto dalle milizie, che, ancora una volta, hanno dimostrato di poter indirizzare i processi decisionali del paese.
Per la Libia il 2021 è stato un anno caratterizzato da diversi avvenimenti che hanno decretato il fallimento della transizione politica inaugurata dal premier Abdul Hamid Mohammed Dbeibah con l’avvallo delle Nazioni unite.
Il rinvio delle elezioni e il ricatto delle milizie armate di Tripoli, che lo scorso 15 dicembre hanno circondato il palazzo del primo ministro per protestare contro la sostituzione del comandante militare Abdel Basit Marwan, sono il risultato esplicito della debacle della Comunità internazionale.
L’Unsmil, la missione di pace dell’Onu in Libia, è intervenuta chiedendo di risolvere le questioni politiche e militari con il dialogo: dal palazzo di vetro di New York sanno benissimo che non è ancora scongiurato il rischio di un aggravio del conflitto civile. Questo anche perché sul territorio sono presenti almeno 20mila mercenari secondo le stime Onu, nonché un numero indefinito di milizie violente e ben armate. Oggi si discute se andare alle urne il prossimo 24 gennaio, ma è una data troppo vicina per un paese che non ha ancora una lista ufficiale dei candidati e dove le tessere elettorali tardano ad arrivare ai cittadini aventi diritto di voto.
Tra brigate e milizie
«In Libia gli attori politici, le milizie e i supporter esterni agiscono nell’ottica del mantenimento del proprio status quo, il quale, benché anomalo, ha garantito un equilibrio che ha impedito la diffusione di nuove violenze, anche se a livello locale ci sono ancora scontri armati», dice Giuseppe Dentice responsabile desk medio oriente per il Centro studi internazionali. Le aree più sensibili sono quelle al confine con il Ciad e la zona tra Sirte e Giofra, una delle più militarizzate.
La morfologia e la composizione delle milizie è cambiata nel corso degli ultimi sette anni. A est il potere è detenuto dall’autoproclamato esercito nazionale libico, guidato dal generale cirenaico Khalifa Haftar, referente principale nel garantire la sicurezza pubblica nell’area anche grazie al supporto di Russia, Egitto e Francia.
A Tripoli, invece, la sicurezza è nelle mani dell’alleanza di quattro gruppi che hanno il controllo della capitale e sono: le forze speciali di deterrenza, la brigata Nawasi, la brigata rivoluzionaria di Tripoli e le forze centrali di sicurezza Abu Salim. Questi sono diventati i protettori di banche e multinazionali, e sono riusciti a garantirsi un certo tipo di influenze nella capitale e dintorni.
«Le milizie tentano di detenere una posizione di forza all’interno della National oil company e della banca nazionale che gestisce i fondi provenienti dall’estero. Sono i due asset che garantiscono ai singoli attori una capacità di azione concreta», spiega Dentice.
Controllare i settori strategici significa avere un potere politico da esercitare.
La brigata Nawasi, di stampo islamista, protegge gli accessi della Libyan investment authority (il fondo sovrano del paese) e attraverso la violenza è riuscita a imporre anche l’assunzione di alcuni suoi membri. A confermarlo è un rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Lo stesso documento evidenzia che la brigata rivoluzionaria di Tripoli ha cercato di stringere accordi con la National oil corporation, la compagnia petrolifera nazionale fondata nel 1970 e guidata da Mustafa Sanalla.
Piazzare i propri uomini all’interno di istituzioni e aziende è anche una delle modalità di finanziamento delle milizie, oltre ai pagamenti per i servizi di sicurezza che svolgono. A Tripoli le brigate coesistono insieme al governo di unità nazionale in un quadro che è espressione della frammentazione della sovranità libica. Fuori dalla capitale, invece, i gruppi armati che detengono zone di influenza nelle aree più emarginate si finanziano anche con attività illegali come il contrabbando di beni e petrolio.
Le figure politiche del 2022
Per la Libia, il 2021 è stato caratterizzato dalla “telenovela” sulle candidature. Saif al Islam, figlio del rais Muammar Gheddafi, ha annunciato la sua corsa elettorale presentandosi davanti le telecamere con lo stesso abito indossato dal padre in uno dei suoi ultimi discorsi alla nazione. Per dieci anni ha vissuto nell’ombra dopo essere stato ostaggio della milizia Zintan e oggi è pronto per entrare nello scenario politico libico.
«Saif al Islam ha un suo bacino di voti e può pescare sia a est che a ovest», dice Dentice. «Tuttavia, potrebbe avere un ruolo più importante nel togliere i voti», specifica. Ma contro Saif al Islam pende un mandato di arresto da parte della Corte penale internazionale con accuse di crimini di guerra commessi durante la repressione della rivoluzione del 2011. Per questo, il ruolo di del figlio di Gheddafi alle prossime elezioni, qualora si terranno, può essere quello di spostare l’ago della bilancia tra i candidati che vanno al ballottaggio, e ottenere in cambio una capacità di resa e influenza sui futuri processi decisionali del paese.
Lo stesso discorso vale per il generale Haftar. «Tecnicamente si trova in una condizione tale per cui potrebbe avere un buon successo ma bisogna vedere gli equilibri in gioco e soprattutto chi riesce a intercettare i voti intorno a lui», dice Dentice. Sul suo caso ci sono due importanti incognite: Haftar non gode di una grande leadership e nemmeno di buona salute. Una delle teorie riguardo alla sua candidatura è che stia agendo per conto del figlio Saddam Haftar.
Rimangono quindi gli altri attori politici più conosciuti: l’attuale premier Dbeibah e Aguila Saleh (il presidente della Camera dei rappresentati della Libia con sede a Tobruk). Il ruolo di Dbeibah, però, è oggi ridimensionato. Non solo alla luce delle ultime tensioni, ma anche perché ha deciso di candidarsi, nonostante il suo ruolo era quello di essere guida della transizione politica con un mandato di solo 12 mesi.
Per quanto riguarda Saleh è uno dei politici con più esperienza e lo sta facendo vedere sul campo. A settembre, appena saputo della candidatura di Dbeibah, il parlamento su sua iniziativa ha votato la sfiducia al governo. Ha tentato anche di sfiduciare Mustafa Sanalla, cercando di piazzare i suoi uomini nel board della National oil company. Il programma politico di Saleh è chiaro: limitare le influenze straniere nel paese e aumentare il decentramento dei poteri.
Le potenze straniere sul territorio
Ma chiunque vincerà le future elezioni deve affrontare l’annosa questione delle ingerenze delle forze straniere spinte anche dagli interessi economici della ricostruzione e che di fatto stanno minando il processo di transizione politica. «La Russia e la Turchia sono quelle che hanno un ruolo predominante, attraverso contractors privati», dice Dentice.
Erdogan si è stabilito a Ovest, mentre la Russia, attraverso la Wagner Group, appoggia il generale Haftar. «Poi ci sono gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto che agiscono attraverso propri istruttori militari e a questa complessa situazione si aggiungono mercenari sudanesi e ciadiani che agiscono nel sud del paese, nel Fezzan, e che hanno guadagnato un grosso credito nelle azioni militari», aggiunge. Un conto che prima o poi sarà presentato al vincitore delle prossime elezioni.
Tra marzo e aprile i ministri e leader europei hanno sfilato a Tripoli promettendo aiuti e sostegno al primo ministro Dbeibah, ma ora gli investimenti si sono fermati, costringendo la leadership libica a rivolgersi verso la Turchia, i paesi del Golfo e l’Egitto nel tentativo di mantenere le promesse economiche per garantire una certa stabilità.
La guerra non è finita e la capitale Tripoli porta anche il segno del disastro tra le sue strade. In alcune parti della città la gente non ha il minimo necessario per vivere dignitosamente: i blackout elettrici sono continui, non sempre le banche hanno la liquidità necessaria ai bancomat, spesso mancano anche i beni di prima necessità.
Ma se a Tripoli, Misurata, Bengasi e Tobruk la situazione è questa, nell’entroterra è peggio. In questo scacchiere geopolitico gli Stati Uniti sono i grandi assenti. «All’ultima conferenza di Parigi era presente anche la vicepresidente Kamala Harris, ma al di là di questo, gli Usa non hanno una vera e propria strategia per la Libia e si aspettano che ce l’abbiano agli europei», dice Dentice.
Ma Francia, Italia e Germania ce l’hanno veramente una strategia per evitare che il paese sprofondi ancora di più nel caos in questo 2022?
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