Al quarto giorno di convention democratica è arrivato il discorso di Kamala Harris con cui ha accettato formalmente la nomination dei democratici, un’occasione sulla quale il suo staff sta lavorando da poco più di un mese e sulla quale si basa la sua ripartenza di fronte al grande pubblico americano dopo una prima campagna presidenziale massacrata dal caos ideologico e organizzativo del suo staff nel 2019 e tre anni sottotono quale vicepresidente di Joe Biden.

Oltre che presentare il programma e il discorso ha avuto anche lo scopo di cancellare una volta e per sempre l’idea molto popolare tra i commentatori e gli intellettuali che la ricandidatura di Biden finita lo scorso 19 luglio sia nata a causa della sua presunta incapacità di Harris di prendere il posto del suo capo. E che una sua candidatura avrebbe scatenato delle primarie molto combattute anche mediante colpi bassi che avrebbero sprecato preziose risorse da destinare alla battaglia contro Donald Trump.

Raccogliere le correnti

Su questo punto non ci sarebbe potuta essere smentita maggiore: tutte le correnti del partito remano insieme con lei, dalla deputata della nuova sinistra Alexandria Ocasio-Cortez fino a Bill e Hillary Clinton, incarnazione vivente del vecchio establishment centrista e neoliberale.

Un’unità che è granitica nonostante qualche malumore sulla gestione del conflitto tra Israele e Hamas: un’ala molto radicale rappresentata dai delegati “uncommitted” eletti in stati che ospitano una cospicua minoranza musulmana come Michigan e Pennsylvania chiede che si faccia un passo in più rispetto alla richiesta di un cessate il fuoco si passi a un taglio netto delle forniture militari allo stato ebraico, obiettivo difficilmente ottenibile e che peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi, non mette in pericolo il voto per il ticket democratico a novembre, anche grazie al sostegno a Benjamin Netanyahu ribadito da Trump affermando che «deve poter finire il lavoro».

Anche con il suo discorso è andata in questa direzione, preceduta dagli interventi della sorella Maya e del governatore del North Carolina Roy Cooper: un intervento dalla lunghezza media di quaranta minuti che ha cercato di tenere dentro tutti i punti che stanno a cuore alle varie correnti del partito.

Non è stato né eccessivamente stringato come il discorso di Biden nel 2020 né uno sproloquio senza fine come l’ora e venti di Trump alla convention repubblicana di luglio.

Ha cominciato, come di consueto, dal background familiare e dalla «casa piena di risate e di musica» dove ha citato sua madre Shyamala Gopalan così come il padre Donald, quest’ultimo un fatto meno consueto dato i rapporti freddi che tuttora ci sono tra i due.

Però è stata la prima a insegnarle «a combattere le ingiustizie» e a «fare qualcosa», così com’è stata la compagna di liceo Wanda, abusata sessualmente dal patrigno, a darle la voglia di diventare una procuratrice. Poi ha dipinto a tinte fosche il quadro riguardante la possibile rielezione di Donald Trump, che ha «inviato una folla armata» ad assaltare il Campidoglio il 6 gennaio 2021 e non ha mai smesso di «alimentare le divisioni» e di «gettare benzina sul fuoco» anche dopo «la sentenza di colpevolezza» e che ora Trump sarebbe «molto pericoloso», specie dopo la sentenza della Corte Suprema Trump v. United States emessa lo scorso luglio che gli conferisce un’ampia immunità e lo rende «ancora più scatenato».

Questione Medio Oriente

Dopo un’analisi sul rischio che corre la democrazia americana, si è riferita alla sua possibile amministrazione, dove ha promesso, con poche chance di riuscita, di essere una presidente «unificante» che terrà conto anche «delle differenti opinioni politiche».

Il punto più delicato però è quello riguardante il conflitto tra Israele e Hamas cominciato lo scorso 7 ottobre: se da un lato ha affermato ancora una volta il diritto dello stato ebraico all’autodifesa, ha comunque affermato che le sofferenze dei palestinesi sono «da spezzare il cuore» e quindi inaccettabili.

Una posizione che probabilmente farà poco per alleviare i malumori di chi ha protestato in questi giorni ma che cerca di tenere dentro tutto. Il movimento “uncommitted” però non è riuscito a ottenere nemmeno un minimo spazio per uno speaker di origine palestinese.

Un’occasione mancata che forse potrà avere il suo peso, anche se non sappiamo fino a che punto. A conclusione, un tono gioioso e di speranza che è stata la cifra di questa convention dem che avrebbe potuto avere tutt’altro tono. Una curiosità: spinti da alcuni retroscena non confermati, gli spettatori esitavano a lasciare la sala perché si sarebbe dovuta esibire la cantante Beyoncé, grande amica dei coniugi Obama. Ipotesi che però si è rivelata senza fondamento.

Come mobilitare

Ora che la convention si è chiusa, c’è però un altro punto che va oltre l’unità del partito raggiunta in questo momento ed è la capacità di costruire coalizioni: quella presente che va dai moderati fino alla sinistra radicale, si è raccolta intorno a lei per il pericolo del ritorno del tycoon alla Casa Bianca.

Non ci sono solo le scelte individuali ma anche un particolare momento storico che vede una costante crescita del voto militante rispetto al voto di pura opinione e con la quasi scomparsa del mitologico elettore «che sceglie soltanto l’ultimo giorno».

Secondo lo storico Michael McGerr, autore nel 1984 del saggio The Decline of Popular Politics a partire dagli anni Venti del Novecento il graduale indebolimento delle macchine di partito che operavano a livello locale a partire dalla metà dell’Ottocento ha portato anche a un aumento dell’astensionismo. Con l’avvento del trumpismo e lo sclerotizzarsi della polarizzazione tra due partiti come repubblicani e democratici che hanno sempre meno in comune, la mobilitazione dei militanti è cruciale per ottenere le vittorie elettorali necessarie.

Questo spiega perché ormai si parli sempre meno della conquista del voto moderato e i governatori più popolari dei due schieramenti sono quelli che implementano le politiche più ideologiche e gradite alla loro base elettorale. Fin qui si è spiegato il motivo per cui non si registra quasi nessuna opposizione a sinistra alla candidatura di Harris rispetto al periodo in cui il candidato era Biden, accusato di aver reso «possibile il genocidio» che starebbe avvenendo nella Striscia di Gaza.

Quello dove però Kamala Harris dovrà dimostrare una capacità di leadership simile al predecessore sarà una volta eletta nello Studio Ovale. Similmente a Biden, infatti, anche nella più rosea delle ipotesi potrà godere di maggioranze esigue sia alla Camera al Senato e pertanto per attuare un ambizioso programma dovrà dimostrare grandi capacità di tessitura che finora non ha avuto modo di attuare, dato che i ruoli politici finora ricoperti (prima di diventare vicepresidente è stata senatrice della California e procuratrice generale del Golden State) presupponevano un lavoro in solitaria con collaboratori agli ordini che non avevano alcun tipo di autonomia decisionale, a differenza di deputati e senatori provenienti da stati in bilico che hanno tutto l’interesse a mostrare di essere indipendenti agli occhi di un elettorato ideologicamente lontano dalla linea nazionale dei dem.

Ad esempio, lo scorso 25 luglio la leadership repubblicana alla Camera ha passato una mozione di censura contro la stessa vicepresidente per aver gestito in malo modo la questione del confine con il Messico nei primi due anni di amministrazione Biden.

Sorprendentemente, sei democratici hanno votato a favore, tra questi Mary Peltola dell’Alaska, stato che non vota per un presidente democratico dal 1964 così come altri rappresentanti eletti in distretti vinti da Trump. Questi sei voti potrebbero essere necessari per passare dei provvedimenti e non vanno trascurati come fatto da Obama nei primi due anni di mandato, dove però godeva di maggioranze larghissime in entrambi i rami del Congresso.

Non sappiamo ancora se Harris cambierà in parte la piattaforma programmatica dei dem votata in bozza lo scorso 16 luglio quando Biden era ancora candidato, magari cercando di affermare un nuovo concetto la “Kamalanomics”, però le premesse, con la scelta di molti consulenti obamiani nella sua campagna elettorale, fanno propendere per uno stile di leadership più mediatico rispetto a quello dell’inquilino uscente della Casa Bianca.

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