Sembra il solito gioco delle parti dopo che il segretario di Stato, Antony Blinken ha terminato la sua tre giorni di incontri tra Gerusalemme, Il Cairo e Doha con un nulla di fatto. Benjamin Netanyahu non ha cambiato la sua posizione sul controllo militare israeliano della Philadelphi Route, il corridoio tra l’Egitto e la Striscia di Gaza. Lo puntualizza una fonte diplomatica dell’ufficio del premier israeliano citata dal Times of Israel.

Ennesima doccia fredda che arriva dopo che sul Washington Post, l’editorialista David Ignatius, uno dei più informati e ascoltati sul tema, ha scritto che, secondo funzionari Usa, Netanyahu avrebbe fatto alcune concessioni nella telefonata delle scorse ore con il presidente americano Joe Biden, compresa una mappa che mostra dove Israele propone di dispiegare le sue forze lungo la Philadelphi Route.

Siamo all’ormai noto costume della dirigenza israeliana che disfa di notte quello che ha accettato di giorno? Oppure Bibi, come è chiamato il premier israeliano, ha fretta di raggiungere i suoi scopi che sono la distruzione di Hamas e il mantenimento dei propri soldati a tempo indefinito dentro Gaza, nei corridoi di Philadephia e Netzarim, per aprire al ritorno nella Striscia dei coloni cacciati ai tempi di Ariel Sharon, prima che Kamala Harris, oggi in testa nei sondaggi, prenda il posto di Joe Biden a gennaio e cambi la sua politica nei confronti di un esecutivo Netanyahu, alleato di ferro, ai partiti della destra religiosa messianica?

Harris avrà meno pazienza di quanta ne abbia avuta Biden verso un paese spaccato e ancora sotto shock del 7 ottobre. Harris probabilmente non prenderà posizioni dure contro Netanyahu fino al 5 novembre, data delle elezioni, per non perdere l’indispensabile sostegno del voto degli ebrei americani, ma dopo quel risultato, se dovesse varcare la soglia della Casa Bianca, cambierebbe i toni e la sostanza nei rapporti tra i due alleati e si tornerebbe alla politica imperiale, dove Washington decide e Tel Aviv esegue.

Così come avvenne con Dwight Eisenhower nel 1956 nel Sinai, Ronald Reagan nell’82 che impose il ritiro dal Libano con una telefonata perentoria, George Bush nel ’92 nei territori occupati. Kamala Harris di certo farà molto di più per contenere le pericolose ambizioni israeliane che mettono a repentaglio la stabilità dell’intera regione. Da Golda Meir in avanti, Joe Biden ha sempre incontrato tutti i premier di Tel Aviv e proprio per questo non è mai riuscito ad essere troppo perentorio con lo Stato di Israele. Harris, invece, non sarà condizionata da questa storia di relazioni e tratterà Netanyahu in modo “laico” con uno sguardo agli interessi americani prima che a quelli di Israele.

Sinwar interessato

Nel frattempo funzionari statunitensi ritengono che il leader di Hamas Yahya Sinwar, sia interessato a un accordo per porre fine alla guerra e rilasciare gli ostaggi israeliani tenuti nella Striscia, ma sta temporeggiando nella speranza che l’Iran o Hezbollah attacchino Israele. Lo riferisce sempre il Washington Post.

Anche l’Egitto esprime scetticismo sul raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, alla vigilia della prevista ripresa dei negoziati al Cairo. Lo scrive l’Associated Press citando i mediatori del Cairo nelle trattative, sottolineando che le sfide attorno alla cosiddetta “proposta ponte” sembrano minare l’ottimismo per un accordo imminente.

Un funzionario egiziano ha affermato che la proposta non dichiara che Israele ritirerà le sue forze da due corridoi strategici a Gaza, il corridoio di Philadelphi e quello di Netzarim. «Questo non è accettabile per noi e ovviamente per Hamas», ha affermato il funzionario egiziano. Parole che non promettono niente di buono da chi ha firmato gli accordi di Camp David asse portante della stabilità regionale.

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